Soltanto sfiorare il concetto dell’ ”essere”, affrontato nel tempo da migliaia di sag-gisti, scrittori e filosofi, comporterebbe aprire ad una dialettica quasi senza fine, pur fondata e valida, ma di certo non possibile in questa sede. Tuttavia, almeno in qualche misura, non se ne può prescindere se posti davanti alle opere di Marco Ceccarini il quale, attraverso un complesso percorso etico-estetico pone al fruitore un costante invito a riflettere e a interrogarsi proprio sul “significato dell’essere opposto alla vacuità dell’apparire”.
Ceccarini trascorre alcuni anni presso l’Istituto d’Arte di Urbino interrompendo poi gli studi alla morte del padre. Con uno stato di irrequietezza interiore decide di partire: Nizza, Venezia, poi il volontario imbarco in Marina. Torna ai suoi studi e, nell’Istituto urbinate si diploma in grafica pubblicitaria. Ma di nuovo lascia la sua città: prima Rimini, poi la Svizzera e, per qualche tempo, Roma dove lavora pres-so le edizioni Armando Curcio. Continua a disegnare e a dipingere; trascorre ore delle sue giornate tra musei e luoghi d’arte che sempre più lo attraggono e sempre più lo spingono verso altre più lontane o originarie culture artistiche. Non basta conoscere; ogni segno e ogni colore deve essere compreso e vissuto. Nuovi viaggi: i luoghi dei Maya e degli Aztechi, le grotte di Altamura, il museo del Bardo a Tunisi dove l’osservazione dei mosaici policromi gli svela un nuovo e decisivo orizzonte. Seguono altri viaggi: dalla Polonia alla (ex) Iugoslavia, dalla Grecia alla Turchia, con riferimenti costanti, fisici e mentali, a Ravenna. Quel nuovo orizzonte è divenuto l’attrazione, il fascino, il senso del mondo bizantino, una nuova via, anche pittorico- formale, per i suoi interrogativi esistenziali.
L’arte bizantina, che pur in fasi tra loro diverse, attraversa circa un millennio della nostra storia, a Ceccarini e non solo, si presenta con caratteri di sfarzoso de-corativismo, di negazione plastica e naturalistica, ma gli offre contemporaneamen-te canoni di “astrazione spiritualistica”. Non si tratta di riproporre, per quanto reinterpretati, tecniche, forme o significati, quanto di avvertirli e percepirli, uni-tamente a più semplici segni dell’arte africana o di quella dell’America latina, quasi una fusione formale contenutistica corrispondente all’evolversi della sfera interiore dell’artista stesso.
Attrazione e significato, volutamente più recondito quest’ultimo, da ricercare e scoprire; quasi una richiesta di sosta e di riflessione nel mezzo di quel “dinamico(?) vivere odierno”, preoccupato (o richiesto?) più di apparire che di essere. E in quell’apparente decorativismo Ceccarini individua nell’ambivalente simbologia del pavone il riferimento più attinente a tale dialettica.
E’ il pavone della vanità e della vanagloria quello che si lamentava con Giunone a causa della “sua bellezza muta” (Fedro) e che la dea rimproverava per le sue la-gnanze: “non c’è bestia, allo stringer del conto, / che ti possa in beltà stare a con-fronto” (J. La Fontaine); e Cecco d’Ascoli (XIII-XIV sec) inseriva nel suo “bestia-rio” (“Acerba”) quel pavone affermando da un lato che le carni si conservavano molto più a lungo di altre, ma dall’altro che, pur essendo le piume pari per bellezza alle ali di un angelo, la voce era orrida e terribili le zampe.
Pochissimi accenni a quella che è una vastissima letteratura e in se stessa contra-stante. Il pavone è il simbolo del sole per le civiltà orientali e mediterranee; è sim-bolo della vita per la ciclica perdita delle sue piume che rinascono splendenti in primavera (Plinio), lo è di prudenza e di ricchezza interpretativa delle Sacre Scrit-ture per i Padri della Chiesa; è simbolo della vita per la carne quasi priva di putre-fazione (Agostino), ma anche della stessa resurrezione quando (età paleocristiana e medioevo) è rappresentato in presenza di calici ove dissetarsi con “l’acqua della vi-ta”.
Una simbologia ed una letteratura costantemente presenti (seppure in vario mo-do): la saggezza di “Giunone” ancora è opposta alla vacuità di “Pavone” (tale il nome del personaggio) in un film realizzato nel 1929 da A. Hitchcock, tratto da un’opera teatrale di Sean O’ Casey!
E’ un lungo cammino, gioioso e tormentato, che si propone di raggiungere l’intimità di quell’uomo fortunatamente mai eguale a se stesso, proiettato alla ri-cerca della propria autenticità, seppure difficoltosa e mai totale, che, per contro, talvolta è tentato di tenere lontana da sé sia perché interiormente disturbante, sia perché percepita come poco appropriata alle “richieste esterne” del tempo attuale; questo tempo nel quale, forse più che in altri momenti storici, la domanda dell’apparire è quanto mai forte e costantemente presente. E’ l’uomo dunque si-gnificante di un “essere in divenire”, seppure più volte conflittuale al suo interno, che tuttavia vuole intraprendere un cammino che lo conduca, progressivamente, un po’ più libero da sovrastrutture, tanto al vedere/si quanto all’ascoltare/si.
In tale concezione è allora necessario considerare “il processo, l’attività, e il movi-mento” quali costituenti dell’essere. Come sottolineato da Georg Simmel, “l’essere implica mutamento, vale a dire che essere è divenire…”, ovvero “la tesi secondo cui l’essere è una sostanza atemporale e immutabile e diametralmente opposta al divenire – Parmenide, Platone, realisti della Scolastica…- ha senso soltanto nel quadro della nozione idealistica che un pensiero-idea costituisca la realtà ulti-ma…” (E. Fromm).
Se per contro ci rivolgiamo alla quotidianità di uomini e donne, come l’opera di Ceccarini non solo chiede ma impone di fare, “quando parliamo della realtà degli esseri umani che esistono, amano, soffrono, dobbiamo constatare che non si dà es-sere il quale non sia in pari tempo in divenire e mutabile. Le strutture viventi pos-sono essere soltanto se divengono, possono esistere soltanto se mutano. Trasfor-mazione e crescita sono qualità inerenti al processo vitale (E. Fromm).
Una serie, numericamente contenuta, di opere dipinte e/o tridimensionali, possono quasi indifferentemente tanto introdurre quanto concludere un lungo percorso i-deativo – operativo di Ceccarini. Il riferimento va a:
a)”un abito appeso”: un invito a spogliarsi, ad abbandonare quel simbolo di este-riorità che ciascuno indossa per presentare se stesso all’”altro”, comunque all’ester-no; proposto talvolta anche in forma di maschera attrattiva – ambivalente, se non nell’accezione negativa della simbologia del pavone;
b)”un quadro – specchio” molto elaborato che vuol condurre l’osservatore a vedersi in tutta la sua esteriorità (quasi “lo specchio delle mie brame”), ma contemporane-amente ad una visione escludente, per quanto possibile, quell’immagine mentale secondo la quale egli ritiene che gli altri lo colgano;
c)”un quadro-specchio” alquanto irregolare nella forma -limite dell’”io”?- che porta a focalizzare l’attenzione sull’occhio/ sullo sguardo, ovvero che induce tanto verso il percepirsi nella propria solitudine interiore, quanto verso l’interrogarsi e cercare se stessi, attenti ad evitare l’autoinganno;
d) “ il quadro bifronte” (materialmente ruotabile) sul quale da un lato viene rap-presentato “l’inno alla vita”, dall’altro “la fine della stessa”; è il passante che, ruo-tando l’opera, viene richiamato ad una riflessione sulla propria concezione della vi-ta terrena e di un tempo “altro”, comunque lo pensi e lo avverta;
e)”una sdraio” collocata per suggerire un’idea di relax, di distacco dai ripetitivi ritmi quotidiani, ma anche per offrire una possibilità di abbandonarsi a pensieri e riflessioni non del tutto nuovi, ma spesso troppo fugaci o rinviati;
f)”una campana”: culturalmente percepita come richiamo di attenzione ogni volta che se ne oda il suono; metaforicamente una disponibilità ad approcciare strade forse impervie ma distanti dai consueti viottoli dell’abitudine;
g)”un crocefisso”: ardua coniugazione di pensiero e parola ancora una volta nel de-siderio/tentativo di comprendere, di sentire “dentro”, di spiegarsi il senso dell’arco temporale terreno e gli ambiti oltre il limite dello stesso; “il mucchietto di sassi” posto alla base ne sta ad indicare la necessità e la difficoltà del percorso;
h) una piccola quanto semplice “cassetta con gli attrezzi del mestiere”: specifica-tamente quelli dell’artista, ma, simbolicamente, anche quelli che ogni uomo può usare ogni giorno per la “propria costruzione”;
i) al centro di questa sorta di circonferenza sta “una lampada”: nascita o luce im-prescindibile per poter affrontare in primo luogo il “sentiero” alla ricerca della au-tenticità dell’essere.
Si è detto possibile introduzione e/o termine di un percorso riccamente articolato da Ceccarini in decine e decine di opere, pittoriche o scultoree, che in questa sede non verranno considerate in analisi singole (con il rischio di una fredda “schedatu-ra”), ma piuttosto in relazione al complessivo messaggio contenutistico(?) ovvero alla poetica dell’artista.
“Potremo mai trovarci in pace con l’universo? E con noi stessi? Il Signor Palomar è tutt’altro che sicuro di riuscirci, ma se non altro, continua a cercare una strada” (I. Calvino).
“Continuare a provarci” diviene progressivamente, o almeno dovrebbe, l’appuntamento inevitabile per ogni uomo.
Nei nostri giorni a qualcuno potrebbe accadere di non riuscire a cogliere il senso di una domanda posta sulla diversità che corre tra i termini “essere” e “apparire”. Possibilità concreta a causa di messaggi volutamente veicolati e largamente diffusi semplicemente sintetizzabili non in un “cogito ergo sum”, ma in un “appaio quindi sono” (manomissione della parola ci ricorderebbe Gianrico Carofiglio?) cui fa se-guito un’ampia omologazione di comportamenti. L’essere viene posto in funzione dell’apparire, piuttosto che il contrario.
Davanti alle opere di Ceccaririni, ad un primo impatto di insieme e di superficie, si è attratti e portati a cogliere quasi un trionfo del decorativismo, l’avvolgente ca-lore della gamma cromatica (colori legati alla terra) quasi un succedersi spettaco-lare di “ code di pavone in ruota”. Tuttavia così non è. Ad un’osservazione neces-sariamente più attenta (che si tratti de “La corruzione del tempio – o “dello spiri-to”- o de “La Torre di Babele”, de “La cacciata degli angeli ribelli” o “Il ritorno alla vita”, o di qualsiasi altra opera) all’interno di quell’apparente decorativismo, che tale non è, risolto con materiali attuali e in forma evidentemente “musiva”, è costantemente evidente la presenza degli uomini, quest’ultimi formalmente pre-sentati in estrema essenzialità, quasi scarni, talvolta arcaizzanti. Un uomo immer-so nel mondo dell’apparenza, ma che avverte costantemente impellente una voce interiore e la necessita di trovare se stesso attraverso una costruzione lunga, lenta talvolta, verso l’unicità che gli appartiene; un uomo che, sollecitato dalle tentazio-ni di abbaglianti successi o di illusori poteri, vive la propria disarmonia, ma che non vuole restare immobile in un rischioso stato di non (auto)riconoscimento.
Ciascun uomo è a conoscenza del “suo doppio” e conosce la “sua ombra”, come ha consapevolezza delle sua “corda seria, civile e (anche) pazza” (L. Pirandello). E quella “corda civile” è proprio quella “maschera” (in latino persona) che egli espo-ne agli altri e anche a se stesso. E’ altrettanto vero che “senza il doppio che cam-mina a fianco (O. Rank, Alter ego) non conosceremmo i desideri segreti e sempre repressi dell’anima,…, non avremmo l’angelo custode, il sogno della notte, il ricor-do lontano, il volto della morte che ci depriva definitivamente dell’ombra perché per sempre spegne per noi la luce” (U. Galimberti), “quella fisica e terrena” ag-giunge Ceccarini.
Viviamo con l’ombra e la viviamo come la nostra parte oscura e negativa, la parte da fuggire ed evitare. “Eppure, scrive Jung, incontro con se stessi significa anzi-tutto incontro con la propria ombra. L’ombra è in verità una gola montana, una parte angusta, la cui stretta non è risparmiata a chiunque discende alla profonda sorgente” (in U. Galimberti). Dialogare con la parte ritenuta la più ostile a noi stessi rappresenta quindi il percorso inevitabile per giungere alla “profonda sor-gente”.
In tutta l’opera di Ceccarini è costantemente presente l’invito a permettere l’affermazione dell’autenticità dell’uomo, a prendere coscienza della brevità e della caducità di qualunque accadimento “apparentemente fantastico e rutilante di luci; a non dimenticare e abbandonare l’unica entità che può essere veramente immor-tale: l’anima. Se credessimo in essa, al di là di ogni personale convinzione metafisi-ca, diverso sarebbe il modo di pensare noi stessi e di comportarci con i nostri com-pagni di viaggio” (M. Ceccarini).
Pier Paolo Pasolini con “Che cosa sono le nuvole?” (in Capriccio all’italiana ,III episodio) realizza un’opera libera quanto sottile, reinterpretando l’ “Otello” di Shakespeare. I due personaggi, Otello (Davoli) e Jago (Totò), al termine della “tragedia”, ormai inutili per quel burattinaio che ne tirava i fili e che li faceva es-ser sulla scena diversi da quanto loro avvertivano di essere fuori da essa, vengono scaricati tra i rifiuti. Una sorta di morte; ma da quello stato di morte si apre per loro la possibilità di vedere quello che prima, nella condizione di uomini – mario-nette, era loro impedito. Quando i due sembrano avvertire di non aver più signifi-cato alcuno, in quella discarica fuori dal teatro, scoprono la bellezza, una bellezza salvifica e di riscatto.
Otello: Che sò quelle?
Jago: Sono nuvole
Otello: E che sò le nuvole? Quanto sò belle! Quanto sò belle!
maggio 2011
Franco Martelli