Hong Kong fra nostalgie occidentali e rivendicazioni cinesi

Creato il 02 dicembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Paolo Balmas

Il movimento per le libertà democratiche di Hong Kong, conosciuto con il nome di Occupy Central with Love and Peace, guidato dal 17enne Joshua Wong, ha occupato dal settembre 2014 prima di tutto lo spazio dei media locali e mondiali. Sullo sfondo delle naturali incomprensioni sorte fra quei due ordini enunciati nella famosa frase di Deng Xiaoping “un Paese, due sistemi”, sembra svilupparsi anche un’opposizione fra Repubblica Popolare Cinese e Occidente.

Hong Kong è una città-Stato di circa sette milioni di abitanti che vivono su un territorio di poco più di 1.000 km2 e composto, oltre alla parte continentale, da più di 200 isole. La popolazione è concentrata nelle zone urbane che registrano una densità particolarmente elevata. Occupata dalle forze inglesi durante la Prima Guerra dell’Oppio (1840-42), Hong Kong fu formalmente ceduta all’Impero britannico dal governo cinese con il trattato di Nanchino (1842) e proclamata colonia britannica nel 1843. Nel 1898 Londra poté annettere al territorio già in suo possesso anche la penisola di Kowloon e i cosiddetti New Territories, questi ultimi ottenuti dalla Cina per effetto della firma del cosiddetto “trattato ineguale” che fissava la durata dell’affitto dello stesso a 99 anni. Il 1° luglio 1997 l’ultimo governatore britannico riconsegnò la città al governo di Pechino con lo status di Regione Amministrativa Speciale, come previsto dagli accordi del 1984 firmati dagli allora leader Margareth Thatcher e Deng Xiaoping. La Repubblica Popolare Cinese, per rendere il passaggio di sovranità più indolore possibile, sottoscrisse la Hong Kong Basic Law, una Costituzione provvisoria che si richiamava al Common Law britannico e che sarebbe rimasta in vigore per 50 anni. Il termine per quello che è stato definito un “riassorbimento” è l’anno 2047. La coesistenza della Repubblica Popolare e della Regione ad Amministrazione Speciale sono oggi le due realtà che incarnano i due sistemi.

Hong Kong rappresenta una delle maggiori espressioni del capitalismo mondiale. L’economia, che raggiunge un PIL annuo di oltre 260 miliardi di dollari, si fonda essenzialmente sui servizi finanziari, sul commercio e sul turismo. È priva di riserve energetiche e fortemente dipendente dalle importazioni di idrocarburi. La fortuna di Hong Kong deriva soprattutto dal fatto che gli interessi della Repubblica Popolare, grande produttrice di manufatti da esportare, sono stati perfettamente complementari alle capacità dell’ex colonia nel divenire uno degli hub più importanti del commercio marittimo. Il porto e la flotta di Hong Kong sono tra i più attivi a livello planetario. Questi, ma anche la Borsa, l’indice Hang Seng, sono stati fra i tramiti privilegiati di Pechino per mantenere relazioni economiche e finanziare con l’esterno.

Tuttavia, si teme che l’attuale trasformazione orientata ai servizi dell’economia cinese permetta ad altri porti di sviluppare le condizioni che fino a oggi sono state una prerogativa di Hong Kong. Inoltre, il processo di “assorbimento”, di fatto, è in piena evoluzione. I capitali del continente entrano nella Zona. Gli effetti si sono constatati in particolare sugli immobili, i cui prezzi sono di conseguenza aumentati oltre ogni attesa negli ultimi anni. Il riflesso più recente dell’integrazione delle due economie è l’apertura dello Shanghai-Hong Kong Stock Connect, un servizio per gli investimenti fra i due mercati. Infine, bisogna notare che Hong Kong non ha forze armate proprie e che la difesa delle acque circostanti il porto, quanto della terra e dell’aria, è affidata alla Repubblica Popolare. In estrema sintesi, la condizione descritta coincide con lo sfondo sul quale si sono evolute le proteste delle ultime settimane.

A partire dal 22 settembre 2014, infatti, i cittadini a favore di un veloce processo democratico si sono concentrati in vari punti strategici della città, tra l’isola di Hong Kong e la parte continentale di Kowloon. Le richieste dei manifestanti consistevano, e consistono tutt’ora, nella possibilità di votare direttamente un governatore che si sia liberamente candidato alle elezioni e nelle dimissioni dell’attuale, Leung Chun-ying. Occupy Central è stato presto appoggiato da studenti universitari, riuniti nella Federazione degli Studenti, e da Scholarism, gruppo formato nel 2011 da studenti più giovani. L’obiettivo principale è che alle prossime elezioni previste per il 2017 si voti per suffragio universale. Per comprendere tale richiesta bisogna conoscere, almeno in grandi linee, il complesso sistema elettorale concordato fra Regno Unito e Repubblica Popolare Cinese e descritto dalla Basic Law

La legge attuale prevede che le 38 fra categorie e sottocategorie (ambiente finanziario, sanitario, agricolo e ittico, religioso, eccetera), in cui è suddivisa la popolazione, scelgano i 1.200 elettori (ciascuno dei quali deve essere proposto da almeno cinque esponenti della propria categoria). Successivamente, gli elettori possono scegliere a scrutinio segreto uno dei candidati che per vincere ha bisogno di almeno 601 voti (Leung Chun-ying è soprannominato “689” dai manifestanti: il numero di voti con cui è stato eletto). I candidati sono proposti, tenendo conto di una rigida serie di regole e di garanzie, e confermati preventivamente con almeno 150 voti. La base “democratica”, quindi, coincide con i cittadini di categoria che scelgono i 1.200 elettori.

Pechino, a fronte delle accuse rivolte da ogni parte del mondo, si difende ricordando che per più di un secolo il governatore era scelto dalla Corona inglese e che un processo democratico è in atto, visto che nel 1998 gli elettori furono solo 400. Alla Repubblica Popolare non sembra interessare la data del 2017, quanto piuttosto sembra aver proiettato il proprio interesse verso una soluzione di respiro molto più ampio, per il 2047. La prospettiva che attende Hong Kong, nella visione di Pechino, è ancora ignota ma è da tenere presente che la trasformazione che ha cominciato a subire la Cina sarà determinante anche nel processo di integrazione di Hong Kong.

L’apertura al dialogo per un’eventuale considerazione delle richieste di Occupy Central trova così le resistenze politiche da parte di Pechino. Prima di tutto, sussiste un problema di sicurezza nazionale. Il movimento di Hong Kong potrebbe, infatti, influenzare alcuni segmenti della popolazione della Repubblica Popolare, in particolare gli studenti. Questi, in Cina e più in generale in Estremo Oriente, godono di particolare rispetto.

Il movimento di Hong Kong ha sviluppato un sottile sistema di comunicazione attraverso il simbolo scelto per identificarsi: l’ombrello giallo. Nella cultura cinese questo oggetto occupa una posizione di prestigio. Anticamente, più di due millenni or sono, ha cominciato ad assumere un significato che lo ha visto entrare prepotentemente nel codice di condotta delle gerarchie del potere. Sebbene lungo la storia ci siano state variazioni, i ranghi più alti della società utilizzavano ombrelli verdi, mentre la famiglia reale (sicuramente la dinastia Song) prediligeva il doppio colore giallo-rosso. Il colore più diffuso presso la gente comune era il blu. Il significato simbolico presso le classi dirigenti consisteva nel voler esprimere la garanzia di protezione nei confronti del popolo e della terra.

Gli ombrelli di Hong Kong esprimono la mancanza di quella garanzia, la mancanza della sicurezza, della possibilità di esercitare con disinvoltura le proprie libertà. In questo senso, l’impatto mediatico su tutto il popolo cinese, molto oltre i confini della regione di Hong Kong, deve essere più forte di quanto ci si possa immaginare dalle distanze occidentali.

Ma le resistenze non provengono solo da Pechino. Il cambiamento chiesto da Occupy Central implica l’abbandono della Basic Law e l’adozione di una nuova costituzione, con tutti i cambiamenti sociali e politici che ciò comporterebbe. La fermezza della maggior parte della classe dirigente di Hong Kong nei confronti dei manifestanti, a parte rare eccezioni, dimostra che lo status quo, per il momento, non è voluto solo a Pechino.

Non è da sottovalutare, infine, l’accusa che le autorità centrali cinesi hanno rivolto a Occupy Central. Secondo queste, il movimento sarebbe sovvenzionato e infiltrato da organizzazioni statunitensi che operano sul territorio di Hong Kong. In particolare l’attenzione è ricaduta sul National Democratic Institute (NDI), che, secondo il sito specializzato The Diplomat, già altre volte è stato indicato da Pechino come una cellula della CIA. L’Istituto è affiliato a una ONG con base a Washington, il National Endowment for Democracy (NED), nome ben più noto negli Stati Uniti, che è riconosciuto come maggior finanziatore di alcune rivoluzioni colorate in varie parti del mondo.

Malgrado i sospetti di Pechino, il movimento si è mantenuto pacifico e anche le forze dell’ordine sono riuscite, in linea di massima, a evitare scontri. La protesta si è ridimensionata e il governo cerca in questi giorni di portarla definitivamente al termine. Anche se gli ultimi agguerriti studenti lasceranno le postazioni, la situazione generale sembra suggerire che si tratti solo della conclusione del primo atto di un processo molto più lungo e potenzialmente più tortuoso.

* Paolo Balmas è Dottore in Lingue e Civiltà Orientali (Università La Sapienza, Roma) e membro del Consiglio Direttivo di Istrid Analysis

Photo creditsFlickr/Mario Madrona/CC BY-NC-SA 2.0

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