di Michele Marsonet. Pressata da altre e più vicine crisi internazionali, l’opinione pubblica occidentale presta come sempre scarsa attenzione alle vicende di Hong Kong. L’ex colonia britannica è in fondo solo una piccola enclave democratica (o quasi) inclusa nell’immenso territorio della Repubblica Popolare Cinese, e quanto avviene nella città-isola non sembra ai più così importante da meritare commenti.
Eppure Hong Kong è diventata il banco di prova dell’evoluzione politica – o involuzione, se si preferisce – della Cina. Infatti è proprio qui che si percepisce la crescente volontà imperiale della leadership di Pechino, ben decisa a stroncare ogni velleità di autonomia e di differenziazione rispetto al modello centralistico e monolitico che ha consentito il controllo pressoché totale dei mass media e di ogni aspetto della vita sociale.
Nonostante le minacce sempre più pressanti e gli inviti da parte di Pechino ad adottare un atteggiamento “patriottico” quando si discute del futuro assetto politico e istituzionale della città, gli abitanti non si sono finora piegati e, al contrario, insistono nella richiesta della democrazia e del suffragio universale libero e non controllato dall’esterno.
E’ un atteggiamento che sorprende non poco, ove si pensi che dopo la restituzione alla Cina da parte inglese nel 1997, il piccolo territorio dell’ex colonia è a tutti gli effetti parte integrante della RPC. In altri termini quest’ultima non ha bisogno di “invaderlo” poiché si trova già sotto la sua giurisdizione da ogni punto di vista.
La limitata autonomia di cui Hong Kong ha finora goduto le ha permesso di mantenere negli anni caratteristiche diverse da quelle del continente. Vi si può recare senza visto (il passaporto viene semplicemente timbrato all’arrivo e alla partenza). La diffusione dell’inglese è molto elevata, e i social network occidentali risultano accessibili senza problemi a cominciare da Google HK, mentre in Cina sono proibiti.
Sono inoltre sorti gruppi di attivisti democratici che hanno conquistato alla loro causa gran parte della popolazione, organizzando marce e sit-in con la partecipazione di un numero di cittadini comuni ben al di là delle previsioni. Il principale è “Occupy Central”, i cui leader hanno minacciato di bloccare completamente la città qualora la richiesta del suffragio universale libero non venisse accolta.
Per comprendere tale richiesta, che può anche sembrare “strana” considerata la situazione concreta e i rapporti di forza, occorre rammentare che nel 1997 Cina e Regno Unito avevano firmato un accordo in base al quale a Hong Kong veniva riconosciuto il diritto di eleggere democraticamente il proprio governo nello stile occidentale, senza interferenze esterne. Il problema è che Pechino non si considera affatto “esterna” e intende quindi imporre le sue regole.
In realtà il Partito comunista cinese ha già risposto in modo preciso alle richieste di cui sopra. I cittadini di Hong Kong potranno sì eleggere il capo del loro governo a suffragio universale, ma dovranno scegliere tra un massimo di tre candidati preventivamente approvati da un comitato fedele agli ordini di Pechino. E non sarà consentita alcuna deroga. Con questo il controllo cinese sulla città diventerà più stringente di quanto non sia ora.
Gli attivisti di “Occupy Central” parlano di disobbedienza civile e della possibilità di dar vita a un vero e proprio movimento di resistenza, ma non si vede come iniziative di questo tipo possano avere successo. I cinesi hanno dimostrato in molte occasioni di non nutrire scrupoli nella repressione dei movimenti autonomisti in varie parti del Paese, poco curandosi delle reazioni internazionali. C’è anche chi spera nell’eventuale aiuto di Stati Uniti, Gran Bretagna e Nazioni Unite, ma senza farsi troppe illusioni al riguardo. Com’è noto, all’ONU la RPC ha potere di veto.
Due fatti vanno notati per concludere. In primo luogo la fermezza degli abitanti nel difendere la loro aspirazione alla democrazia è degna della massima ammirazione, soprattutto rammentando che l’interlocutore non lascia spiragli. In secondo luogo la Cina appare sempre più avviata sulla strada di superpotenza globale, pronta a tutto pur di evitare che fenomeni di dissidenza mettano in pericolo la struttura monolitica che la governa.