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Da deputato a capogruppo di maggioranza, da vicepresidente e presidente.
E ora Frank Underwood chi lo ferma più?
Lo ferma la sua popolarità, lo ferma una politica e un congresso paralizzati e che nemmeno lui riesce a controllare, lo fermano scelte che minano la sua credibilità, la sua finta onestà e pure il suo matrimonio.
Avevamo lasciato Kevin Spacey dietro quella scrivania, dentro la sala ovale, dentro la Casa Bianca, che con due noccate al tavolo ci dimostrava tutta la sua spavalderia e tutto il potere che con intrighi, doppi giochi e pure omicidi era riuscito a raggiungere.
Ora però il nemico non è più solo la stampa, solo giornalisti ficcanaso, il nemico sembra essere la politica intera con il suo stesso partito che non lo vuole appoggiare, con gli elettori che non gli danno fiducia. In più, c'è un presidente russo a tenerlo in riga, e una moglie che lo aiuta, sì, ma che chiede di più, un suo spazio, un suo ruolo non facile da concedere.
L'attesa terza stagione di House of Cards arriva e scombussola quanto finora costruito, mettendo da parte tanti personaggi, senza delineare una vera e propria scalata che Frank deve percorrere, ma optando per una ricercata stabilità del potere acquisito, che deve quindi difendere da attacchi continui a tutti i fianchi possibili.
Così facendo, però, si mescolano fin troppi ingredienti, soprattutto se si tiene conto che il periodo di tempo seguito è parecchio lungo, 18 mesi e più, nei quali vengono affrontati la crisi nella Valle del Giordano, il ciclone Faith, e l'AmericaWorks, disegno di legge studiato a tavolino per ammiccare agli elettori, promettendo e trovando posti di lavoro attingendo però ai fondi destinati alle emergenze.
Una mossa a cui Frank tiene tantissimo, che difenderà con i denti, arrivando ad assumere lo scrittore di grido Tom Yates per un romanzo che di lavoro e fatica parli.
Come la serie stessa, però, si finirà per concentrarsi sulla figura misteriosa di Frank, sui i suoi nascosti intenti, e sulla donna che lo accompagna, quella Claire che abbiamo imparato ad amare e odiare, e che qui vacilla, sotto il peso di un potere che sembra non poter condividere e di sacrifici che deve compiere. Colpa anche di un presidente russo altrettanto freddo e spietato, che non abbasserà la testa chiedendo quella di altri.
Nel mezzo, anzi, nel finale, tutta la politica, tutti i disegni costruiti vanno a convergere nelle elezioni ormai prossime, ridando lustro con quella scalata, con quella sagacia che Underwood mostra nelle gare.
C'è quindi un po' di delusione attorno a questa confusa terza stagione, che come detto mette da parte nomi importanti e non (la giornalista -, il candidato Mendoza, sparito nel nulla nel giro di un episodio), mette da parte la prgmaticità mostrando la fitta agenda di un Presidente che passa dalla politica estera a quella interna, dalle crisi metereologiche a quelle militari.
Ci si concentra sul sicuro, sui protagonisti, sui ripensamenti di Jackie e di Remy, sulla crisi che colpisce Doug, la cui vicenda è forse interessante tanto quella del suo capo.
A non deludere sono comunque tutti gli aspetti tecnici dietro House of Cards, quella perfezione registica, di stile, di colonna sonora (in particolare l'ultimo episodio) e di recitazione che da soli bastano comunque la visione: come resistere infatti agli sguardi, alla voce di Kevin Spacey, come non ammirare l'eleganza di Robin Wright, e come non tremare ad ogni dialogo, ad ogni monologo che si pianta nel cervello dello spettatore come una pietra ben appuntita (prendere la cena con Petrov come esempio, prego)?
Impossibile, e con quel finale sospeso che mette nuovamente tutto in gioco, non resta che aspettare pazientemente, convinti che dietro una leggera delusione c'è ancora più margine per migliorare.
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