«Se riusciamo a riaccendere una luce, anche piccola, anche per un attimo, forse anche altri crederanno di poterlo fare». Facciamo un piccolo passo indietro. Siamo a metà ottobre. Prima di salire sul palco del Multisala Garden, Manuel D’Agnelli e gli altri motivano così la scelta di fermarsi all’Aquila per l’unica data del 2014 del festival “Hai paura del buio”. La musica degli Afterhours e le luci dal palco riscaldano una periferia altrimenti vuota e buia. Anche il centro storico, del resto, sarebbe vuoto e buio se non fosse per il Festival della montagna che si svolge in contemporanea intorno all’Auditorium di Renzo Piano (e questo è un po’ il frutto dell’abitudine tutta aquilana di organizzare gli eventi in concomitanza).
Entrambe le platee, comunque, sono ben corpose. Nel parcheggio dell’ex multisala di Monticchio, a riempire schede Sd per conto di Rockon.it, uno dei portali di riferimento per la musica alternativa, c’è anche Antonio Siringo. Fotografo ufficiale della rivista musicale Rolling Stone, documenta eventi live su e giù per l’Italia. Con la casa editrice Arcana ha al suo attivo due collaborazioni importanti, la prima all’interno di un volume dedicato a Bruce Springsteen, Our Love is Real; la seconda in omaggio ai recenti concerti dei Pearl Jam a Milano e Trieste, in occasione del Lightning Bolt tour. Davanti agli obiettivi delle sue Reflex si alternano colori e ombre degli show di Antonio Rezza e Flavia Mastrella. E poi le parole di Paolo Giordano e le atmosfere inedite targate Bachi da Pietra, Graziano Staino, Isabella Staino, Luminal, Nebulae, Ura, tanto per citarne alcuni. Fino ad arrivare al carisma di Piero Pelù.
ARTE PER RICOSTRUIRE. «Artisti più o meno conosciuti hanno voluto regalare a questa città qualcosa che va oltre la piccola maratona di concerti e spettacoli», ricorda Antonio. «Hanno indicato una via. Hanno portato il loro esempio facendo capire ai giovani, soprattutto, che la musica e l’arte in generale sono un mezzo per tenere viva la voglia di ricostruire i tessuti lacerati dal sisma di questa comunità». Per Antonio, quel concerto non è stato il primo che ha seguito all’Aquila. «Sono venuto qui anche qualche anno fa, sempre per gli Afterhours, in occasione del “Teatro degli orrori”», spiega «quella sera di metà ottobre c’era un’atmosfera incredibile, con gente venuta da tutto il centro Italia». Il gruppo milanese – che prima di suonare ha fatto un lungo giro in centro storico – incarna forse quel messaggio che tante band locali portano avanti, quella voglia di andare avanti. Quella voglia di non arrendersi e di fare di questa città un posto migliore. Un messaggio affidato alle pelli delle batterie, alle corde dei violini e delle chitarre, il cui suono è filtrato da grandi amplificatori valvolari. Un suono che riscalda il deserto urbano di una periferia fatta di negozi chiuse e strutture semiabbandonate. Prendono il posto sul palco a Piero Pelù, lasciandogli il tempo di lanciare le sue denunce contro infiltrazioni criminali e una politica divisa e inconcludente i cui errori hanno ripercussioni dirette sui tempi della ricostruzione. «Ci hanno dato dentro per ore», aggiunge Siringo, «regalando a quel piazzale un’atmosfera inedita. È stato uno dei concerti più belli a cui ho assistito». È tutto dire, se si pensa che il fotografo casertano si è trovato in passato sotto al palco dei Rem o degli Skunk Anansie (Neapolis Festival), ma anche a due passi dal pit di Bruce Springsteen.
IN CENTRO. Anche Siringo ha fatto un giro in centro qualche ora prima del concerto, caricando la sua reflex di scatti in bianco e nero. In giro poca gente. «Ho intravisto Giorgio Prette, il batterista degli Afterhours che di lì a poco avrebbe lasciato la formazione, volevo fare qualche scatto con lui, ma era con la famiglia e mi è apparso seriamente impressionato da quello che aveva davanti agli occhi. Quindi l’ho salutato e basta. D’altra parte», valuta il fotografo, « Il terremoto ha dato al centro un’atmosfera spettrale, fatta di strade vuote e silenziose che si riempiono solo quando passano due o tre muratori dei cantieri aperti», ricorda. «Qualcosa di surreale se paragonata al clima che avremmo respirato da lì a qualche ora, sotto al palco dell’ex multisala, quando a fare la differenza non c’era solo il live set, ma il calore di una gente seriamente intenzionata a ripartire dalla musica e dall’arte, per riprendersi il proprio spazio e il proprio tempo».
di Fabio Iuliano – fonte il Centro