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hugo cabret

Creato il 06 febbraio 2012 da Albertogallo

HUGO (Usa 2011)

locandina hugo cabret

“Non starò ad annoiarvi con la storia del mio amore totale e quasi irrazionale per Martin Scorsese; con aneddoti su quando, da piccolo, giacché non funzionava il timer del mio videoregistratore, mi alzavo nel cuore della notte per registrare Toro scatenato o Fuori orario; con la delusione che provai il giorno in cui, sperando di vederlo dal vivo al Teatro Regio di Torino in occasione della presentazione del restauro di Cabiria, scoprii che il suo intervento era un video registrato; con il racconto di quando trovai tre fotobuste originali di Taxi driver, spendendo un patrimonio per comprarle e incorniciarle. Ecco appunto, non starò ad annoiarvi con queste cose. Mi limiterò a dirvi che per me Martin Scorsese è il cinema”.

Con queste parole, due anni fa, iniziavo la recensione di Shutter Island. Parole che erano quasi un mettere le mani avanti, dal momento che – fatta salva la solita, straordinaria qualità scorsesiana delle immagini – quel film mi aveva deluso un bel po’. Perché allora ho deciso di riprendere quell’incipit? Sto forse cercando di dirvi in qualche modo che anche questo Hugo Cabret non è stata la rivelazione che mi sarei aspettato? Un’altra delusione da parte di un regista che, arrivato alla soglia dei 70 anni, non sa più stupire/stupirmi? In un certo senso è così, ché sebbene questo film sia tutt’altro che un’opera banale o svogliata o senile non è certo il capolavoro che era lecito attendersi date le premesse (vedremo tra poco quali), rimanendo nei binari di una pur riuscita pellicola per bambini o, al limite, per cinefili con la sindrome di Peter Pan.

Le premesse, in tre nomi:
1) Martin Scorsese, ancora, ça va sans dire: da una leggenda del cinema, una delle poche rimaste ancora in attività, è giusto pretendere e aspettarsi sempre il massimo;
2) Brian Selznick, autore di The invention of Hugo Cabret, la premiatissima graphic novel da cui è tratto il film: io non l’ho letta, ma si dice in giro che sia un’opera incredibilmente affascinante;
3) Georges Méliès, mitico pioniere del cinema fantastico e di fantascienza, la cui figura (interpretata dal grande vecchio Ben Kingsley) è al centro della vicenda.

Partiamo proprio da quest’ultimo nome. Quando stavo a Parigi (città dove è ambientato anche Hugo Cabret – tutto torna) mi capitò di vedere una mostra su Méliès alla Cinémathèque française: per uno come me, cresciuto a pane e Sergio Leone (e Coppola, e Woody Allen, e Stanley Kubrick), non era e non è certo facile capire e apprezzare una simile idea arcaica di cinema, quei rozzi effetti speciali, quei fotogrammi dipinti a mano, quell’entusiasmo quasi fanciullesco di chi si trovava di fronte a una forma d’arte appena nata e ancora piena di promesse da mantenere. Eppure rimasi affascinato da quei mondi impossibili, un po’ proto-horror e un po’ Jules Verne, capendo, in fondo, perché Méliès fosse diventato alla sua epoca così incredibilmente popolare e influente sul cinema a venire. Scorsese resuscita la figura di questo leggendario mago e regista francese, mettendola al centro di una vicenda abbastanza complicata – ambientata per la maggior parte in una stazione parigina – il cui principale agente è il piccolo Hugo, orfano con la passione della meccanica e – va da sé – della settima arte: al cinema ci andava sempre col babbo, prima che morisse, e a vedere un film di Buster Keaton ci porta pure, per una sorta di primo appuntamento preadolescenziale, la figlia adottiva di Méliès, Isabelle, che fino ad allora le avventure le aveva vissute soltanto sulle pagine dei libri. Ecco perché, dicevo, Hugo è un film per cinefili (cosa che fa sempre piacere: è raro che l’amore per il cinema porti un regista a partorire schifezze), sorta di prequel ideale e sempre parigino di The Dreamers, laddove i protagonisti non hanno ancora scoperto il sesso e i film, pure loro, non hanno ancora perso l’innocenza. Dopo tanti documentari girati da Scorsese sulla storia del cinema, dopo tanti restauri di vecchie pellicole e tanti interventi pubblici volti a far conoscere i bei film di una volta, era quasi ovvio che la cinefilia dovesse prima o poi entrare di peso in un film del regista newyorkese. Fin qui tutto bene, insomma, e non si tratta certo dell’unico punto di forza del film: bellissima è, ad esempio, la regia, dinamica e inventiva come non mai, specialmente nei primi minuti di pellicola, minuti in cui la macchina da presa non ne vuole proprio sapere di stare ferma, inseguendo situazioni e personaggi in una serie ininterrotta di virtuosismi, esaltati dal montaggio anch’esso superdinamico della più antica e fedele collaboratrice di Scorsese, Thelma Schoonmaker (già premio Oscar per Toro scatenato, The aviator e The departed). Geniale anche l’idea di ri-girare alcune scene dei vecchi film di Méliès, svelandone trucchi, magie ed effetti speciali.

C’è poi, però, tutta una serie di scelte che proprio non mi è piaciuta. A cominciare dal buonismo spielberghiano di fondo. Esatto, ho detto spielberghiano: se non avessi letto sui giornali che il regista di Hugo Cabret è Martin Scorsese, quello dei gangster movie superviolenti, quello che negli anni Settanta insieme a pochi altri autori rivoluzionò il cinema americano, avrei detto di trovarmi di fronte all’ennesimo film per bambini di Steven Spielberg o Robert Zemeckis (con un pizzico di Tim Burton e Terry Gilliam, va’). Uno di quei film dove anche i personaggi apparentemente più negativi alla fine si rivelano buoni (si comportavano male solo perché erano tristi), dove tutti alla fine trovano la felicità di coppia, dove tutti i reietti e i falliti alla fine ottengono il riscatto. Uno di quei film pieni di frasi strappalacrime e musiche pompose (sebbene in questo caso non disprezzabili: lo score è del veterano Howard Shore, ma c’è anche un po’ di Satie) a sottolineare gli stati d’animo dei protagonisti. Uno di quei film privi di vere sorprese capaci di spiazzare, anche in maniera “scomoda”, lo spettatore. Altro lampante rimando a Spielberg è l’ambientazione, terribilmente simile a quella di The terminal: là c’era un aeroporto, qua una stazione, ma quel mondo chiuso (in contrasto con i mezzi di trasporto che paradossalmente vi passano incessantemente) e quei personaggi fissi (simbolici, direi, e monodimensionali) che lo popolano, narrativamente capeggiati da un protagonista (un outcast in entrambi i casi) che deve portare a termine una missione contro tutto e contro tutti, sono gli stessi. Altre cose che non mi sono piaciute: il 3D (ma comincio a pensare che sia un problema mio: non mi piace mai, mi distrae, e non mi piace spendere 10 euro per una cosa che non mi piace), un cast non del tutto all’altezza della situazione (ok, ci sono Kingsley e Christopher Lee, ma pure l’insopportabile Sacha Baron Cohen e una serie di facce un po’ inutili, Hugo compreso) e il doppiaggio (ma qui non è colpa di Scorsese. Qualcuno asporti le corde vocali a Pino Insegno, per piacere: non mi va di vedere un film d’autore con in mente la Premiata Ditta).

Le recensioni di Hugo Cabret si sono sperticate in elogi (e pure l’Academy ha apprezzato: 11 nomination agli Oscar!), sprecando termini ed espressioni di giubilo un po’ vuoti di significato come “la magia del cinema” e “un film che fa sognare” (in che senso? Che ti addormenti durante la proiezione? Non è un buon complimento). Io, l’avrete capito, sono solo parzialmente d’accordo, eppure consiglio comunque di andare a vederlo, questo film. Sia perché di un autore come Scorsese bisognerebbe vedere tutto, sia perché si tratta di una buona occasione per imparare o ripassare qualcosa sulla preistoria di questa meravigliosa “invenzione dei sogni” chiamata cinema.

Alberto Gallo



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