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Hugo Cabret

Creato il 26 febbraio 2012 da Af68 @AntonioFalcone1

Hugo CabretAncora poche ore e potremo sapere quale pellicola premierà il verdetto espresso dall’Academy, Hugo Cabret di Martin Scorsese, forte di undici nomination, o The Artist, Michel Azanavicius, a seguire con dieci, due film aventi in comune l’idea di base, un omaggio al cinema delle origini, per quanto espresso con diverse modalità, tanto di realizzazione che di contenuto.

Infatti, se il regista francese omaggia l’Hollywood del tempo che fu, i primi divi, il bianco e nero, l’assenza di sonoro, Scorsese sfrutta con abile disinvoltura la tecnica del 3D, rendendola funzionale alla narrazione e mai invasiva, anzi oserei dire intimista, per attualizzare l’idea di cinema come magia, risalendo ai suoi albori, e “fabbrica dei sogni”, quest’ultimi alimentati da quella purezza dello sguardo propria di chi sia capace di farsi trasportare, attraverso il fascio di luce e con la sola forza dell’immaginazione, dallo schermo verso mondi fantastici o, semplicemente, intimamente desiderati.

Tratto dalla graphic novel La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, Brian Selznick (edito in Italia da Mondadori), adattata per il grande schermo da John Logan, il film presenta un impatto, anche, se non soprattutto, visivo, meno aggressivo e “violento” rispetto ai classici capolavori di Scorsese, con una certa morbidezza di ripresa a fare da inedita modalità espressiva, pur non rinunciando ad alcuni tocchi estremamente personali: la bellissima carrellata introduttiva, che ci porta all’interno della stazione ferroviaria di Gare Montparnasse, nella Parigi del 1931, splendidamente realizzata da Dante Ferretti, o la capacità di dar vita a delle piccole storie di varia umanità a corollario della vicenda principale, come quella tra il burbero ispettore ferroviario (Sacha Baron Cohen) e la fioraia, che conferiscono un ulteriore tocco poetico, dal retrogusto chapliniano.

Ciò che ho avvertito ed apprezzato in particolare, specialmente in confronto ai precedenti Shutter Island e The Departed, è la partecipazione in prima persona dell’autore, il suo “sentire il film” e conferirgli estrema personalizzazione nell’uso di un linguaggio metacinematografico: il punto d’osservazione di Scorsese è, infatti, tutt’uno con quello disincantato di Hugo (Asa Butterfield), l’orfano che vive in un nascondiglio segreto all’interno della stazione, dove svolge il compito di caricare e regolare puntualmente i vari orologi, cercando di dar vita ad un automa recuperato dal padre orologiaio poco prima di morire, convinto possa essere latore di un suo messaggio, e che lo porterà, coadiuvato dall’amica Isabelle (Chloe Moretz) a fare la conoscenza del grande regista George Melies (Ben Kingsley, profondamente intenso nella sua interpretazione).

Siamo quindi di fronte ad un viaggio nel mondo della Settima Arte, nella cornice, a detta dello stesso regista, di un film per famiglie, dall’impronta favolistica:il cinema che nasce come rappresentazione della realtà e “moda passeggera” (i fratelli Lumiere) per trasmutarsi poi in visualizzazione del sogno (Melies), travalicato dal tragico incombere degli eventi e conseguente perduta capacità immaginifica degli spettatori, purificato infine e riportato alla sua originaria essenza da quanti sanno guardare al passato, in ogni sua espressione artistica, focalizzandone i diversi intuiti creativi, ma ben calati nel presente.
Il tutto mi è parso concentrato essenzialmente in due scene, Scorsese nei panni di un fotografo che immortala Melies e l’inquadratura finale sull’automa e il suo messaggio, volta a conferire concretezza all’utopia del cinema come macchina del tempo, nonostante l’inesorabile fluire di quest’ultimo, capace con il suo afflato incantato di riunire più generazioni.


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