"I'd imagine the whole world was one big machine. Machines never come with any extra parts, you know. They always come with the exact amount they need. So I figured, if the entire world was one big machine, I couldn't be an extra part. I had to be here for some reason."(Hugo)
La nostalgia è una forza pericolosa: mentre il presente ci spinge a cercare familiarità con ritmi sempre più frenetici e avanzatissime tecnologie, la purezza e la semplicità dei valori del passato finisce per diventare, oltre che un comodo e accogliente rifugio, lo strumento ideale per capire se stiamo davvero andando nella direzione giusta.
Pluripremiata e lodata dalla critica, la nostalgia delle origini sarà anche diventata il costante leitmotiv della stagione cinematografica 2011-2012, ma nell'entusiasmo della rievocazione il rischio di smarrirsi si rivela spesso inevitabile:
Hugo Cabret(Hugo), diretto dalla mano del grande Martin Scorsese, non fa eccezione.
Collocare questa prima vera incursione nel cinema per ragazzi all'interno della vastissima e poliedrica produzione del regista di Taxi Driver non è facile impresa, ma basta poco per capire come per Scorsese la trasposizione del romanzo illustrato di Brian Selznick sia soltanto un pretesto, necessario per la costruzione di un meccanismo ben più profondo e ambizioso.
L'avventura dickensiana del dodicenne Hugo, orfano che vive nascosto nella stazione ferroviaria di Montparnasse nella Parigi degli anni '30 e che sogna di poter aggiustare un automa in modo da riuscire a ricomporre l'ultimo messaggio del padre, diventa così metafora della preziosa iniziazione alla più straordinaria magia che il secolo scorso ci abbia lasciato: il cinema, complesso ingranaggio capace di trasformare la perfezione della tecnica in pura meraviglia visiva si incarna nell'opera di un malinconico George Melies, un tempo pioniere della creazione dei sogni e adesso disilluso giocattolaio dimenticato da tutti, nel tentativo di restituire al pubblico il cuore di un incanto che troppo spesso ormai viene dato per scontato.
Se le nobili intenzioni del regista non possono che essere condivisibili e apprezzabili, il risultato finale non riesce però ad essere altrettanto convincente: nonostante le ottime scenografie dell'ormai collaudato team Dante Ferretti/Francesca Lo Schiavo e i brillanti colori della fotografia del premio Oscar Robert Richardson, a servizio di una messa in scena barocca e sovraccarica che si avvicina al meglio all'impatto quasi teatrale che i primi film avevano sugli spettatori, il vero problema è il totale disinteresse nei confronti del destino di quel personaggio che si supponeva essere il protagonista della pellicola: Hugo Cabret.
Complice una sceneggiatura scarna e assai poco incisiva che attraversa una nuvola di personaggi ai quali non viene dedicato il minimo approfondimento psicologico(tutti coloro che popolano abitualmente il "set" della stazione, dal poliziotto cattivo alla fioraia e persino uno zio orologiaio di cui poco o niente c'è dato sapere), il tentativo di Hugo di preservare il ricordo del padre(una breve apparizione di Jude Law) e capire allora il proprio posto nei complessi ingranaggi della vita finisce sacrificato sull'altare di una didattica e quasi documentaristica dissertazione sulle origini del cinema, affascinante nei momenti in cui restituisce forma alle immaginifiche visioni del genio di Melies(un ottimo Ben Kinsgley), lenta e stancante in tutti gli altri; come un nonno che nel raccontare i propri ricordi ai nipotini si lascia prendere dall'entusiasmo a tal punto da non notare che questi hanno smesso di ascoltarlo annoiati, Scorsese realizza una pellicola dal meccanismo incompleto e difettoso, dove il più sincero e appassionato dei messaggi finisce per prendere il sopravvento e schiacciare tutto il resto, senza mai trovare la forza(che invece aveva avuto
Midnight in Paris di Woody Allen)di costruire un ponte col presente che vada al di là della malinconica rimembranza. Per raccontare una favola come si deve ci vuole ben altro: ricordare non è abbastanza.
PS: 1- l'Oscar vinto per la migliore fotografia per me è stato forse uno dei più ingiusti della storia del cinema: la statuetta, con tutto il rispetto per l'ottimo lavoro di Richardson, avrebbe dovuto consacrare di diritto lo straordinario lavoro fatto da Emmanuel Lubezki in
The Tree of Life. E BASTA.
2-Non ho visto il film in 3D, quindi non mi esprimo in merito.