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Sembra quasi che Scorsese voglia provare a fare lo Spielberg della situazione, mettendo sul piatto la storia di un ragazzino orfano costretto a vivere nascosto nella stazione parigina di Montparnasse da quando, dopo la morte accidentale del padre, lo zio alcolizzato lo ha forzatamente preso sotto la sua ala. Ci prova, appunto, perché in mano gli manca quella che dovrebbe essere definita una sceneggiatura realmente salda o, per usare un termine più appropriato al contesto, un meccanismo davvero funzionante.
“Hugo Cabret” è un racconto palesemente scollato e eterogeneo, in cui sembrano operare meglio le sottotrame piuttosto che la fiacca trama principale, responsabile di portare la pellicola di fronte alla conseguente impossibilità di sfondare l’apparente muro di vetro che da prassi si ostina a dividere lo spettatore dalla magia dello schermo. Lo stesso che non riesce ad aggirare nemmeno un uso eccellente del 3D, nonostante ci provi con tutte le sue forze fornendo ampia profondità alle immagini e catapultando fuori in varie occasioni anche i personaggi.
A tamponare parzialmente la situazione e quindi a limitare i danni deve entrare in gioco allora la completa bravura di Martin Scorsese che, probabilmente consapevole della debole sceneggiatura scritta da John Logan, tramite la sua immensa esperienza pesca dal cilindro i modi e le maniere per arrivare deciso e dritto al cuore, costruendo piccoli momenti toccanti e emozionanti e unendoli a delle fantastiche sequenze mozzafiato. E’ nella seconda parte infatti che il film trova una sua precaria stabilità, trasformandosi in un vero e proprio omaggio alla settima arte e lasciando affiorare integralmente la figura più interessante e misteriosa della storia: il George Méliès interpretato dal bravissimo Ben Kingsley.
Eppure l’ottima confezione è il pregio migliore a cui “Hugo Cabret” può aggrapparsi dal momento in cui i suoi contenuti non appaiono mai sistemati in una forma abbastanza ordinata da poter essere considerata come punto di forza mentre al contrario invece le scenografie e la messa in scena possono vantare di una grande magnificenza. Questo costringe Scorsese a rinunciare al ruolo di Spielberg impersonato in precedenza e a tornare quindi in quello di sé stesso, cosa che decisamente gli riesce assai meglio ma soprattutto gli permette di portare a casa un lavoro tutto sommato accettabile.
Così la dichiarazione d'amore per il suo mestiere non finisce per essere completamente gettata alle ortiche, aiutata moltissimo da un finale che va a concludere la spezzettata favola con delle atmosfere magiche mescolate tra sogno e realtà, destinate a regalare a ognuno dei personaggi quel tanto agognato scopo che sembravano aver smarrito o mai rintracciato.
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