È l’ultima fatica del buon Scorsese. Nominato agli Oscar come miglior film e miglior regista, stessa qualifica per cui, peraltro, ha valso al suo autore anche un Golden Globe: si parla di Hugo Cabret. La vicenda – tratta dall’omonimo libro per l’infanzia di Brian Selznick – è la seguente: un povero orfano vittima dell’accanimento divino – o nulla di quello che segue si spiega altrimenti – ha il solo scopo nella vita di recuperare una chiave a forma di cuore dal dubbio gusto estetico, per non venir meno a una promessa fatta al padre prima che egli morisse in un disgraziato incidente. Questo darà il la a una serie di incontri/scontri con la brava e meno brava gente di Parigi, fino alla sorprendente scoperta finale della obliata opera di un Méliès romanzato a dire il meno, pionieristico padre del linguaggio cinematografico. La pellicola viene presentata come una sentita dichiarazione d’amore al cinema, e ogni cosa può esser detta fuorché che non lo sia. Ma è poco altro. Non mi si fraintenda, il film è godibile e piacevole, ma alcune soluzioni narrative rischiano di essere scontate e banali fin quasi al ridicolo; interminabili scene di dieci minuti almeno, sarebbero serenamente potute durare tre, senza perderne in nulla; e qualche forzatura, qui e lì, grondava quel certo autocompiacimento che, se sei Martin Scorsese, volendo puoi anche permetterti.
Ci si potrebbe per esempio domandare la ragione per cui una vista aerea e notturna di Parigi debba ricordare la New York di Sex and the City, ma il punto debole del film è lungi dall’essere questo – dal momento che qualcuno potrebbe considerare addirittura la cosa un valore aggiunto. La vera debolezza, piuttosto, sta in un processo di sartoria narrativa che mira a una commozione imposta, ricercata e mai raggiunta, che lascia vagamente insoddisfatti. Il film è in ogni caso lontano dall’essere brutto, e non è del tutto da escludere che parte della delusione non sia provocata da altro che il carico di aspettative preconcette, piuttosto che da una problematica realmente concreta e individuabile.
D’altra parte, la resa è eccezionale. Un cast di tutto rispetto dà almeno metà dello spessore a un lungometraggio che in caso contrario sarebbe stato di gran lunga più inconsistente. In primo luogo Krishna Pandit Bhanji, in arte Ben Kingsley, la cui sorprendente somiglianza con l’autentico Méliès non è che l’ultima delle ragioni per cui nessun attore diverso da lui avrebbe potuto vantare una resa migliore del personaggio. Ad accompagnare papa Georges, vero protagonista del film, tutta una serie di attori satelliti, importantissimi nello scenario britannico: Helen McCrory; Ray Winstone; Sacha Baron Cohen; Emily Mortimer; Christopher Lee – il bibliotecario. Nonché un sorprendente Jude Law, eccezionalmente nel ruolo di padre e non di padre dei miei figli. In mezzo a una compagnia del genere i due giovani protagonisti Asa Butterfield e Chloë Grace Moretz non possono che fare la figura dei due teneri piccoli gnomi fin quasi a scomparire, lasciando il posto a un’atmosfera corale e favolistica tutto sommato abbastanza piacevole.
E quindi una Parigi del dopoguerra – stereotipata perché fortemente voluta tale – diventa piccolo teatro di piccole vicende, la cui tenerezza sta interamente in questa piccolezza. La donna col cane, la corte garbata di cui è oggetto; il generale Aladeen e la fioraia che ne addolcisce il cuore («Sorridi», gli viene chiesto all’inizio del film, e lui non sembra esserne capace. «Sorridi», gli viene chiesto alla fine, e la spassosa replica di lui: «Quale sorriso? Ormai ne padroneggio ben tre»); il bibliotecario e la sua capacità di vedere oltre; la piccola Isabelle con l’ossessione per i libri e le parole più grandi di lei, che va dicendo reprobo e circonlocuzioni alla ricerca di un posto che non ha, ma che vorrebbe avere; la ripresa della vita alla fine della guerra; Méliès diventa simbolo.
Esperto aiuto a una costruzione del genere, i nostrani Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, a cui val la pena fare un applauso dal momento che le loro scenografie sono – a mio parere – in assoluto la componente più valida di questa produzione. In una favola del genere, a dire il vero, ci si sarebbe aspettato che le musiche – firmate da Howard Shore – fossero più protagoniste e meno spalle, ma se un esclusivo accompagnamento alle immagini era richiesto, nulla che rubasse la scena ai protagonisti, allora that’s it. Una favola, quindi, e anche una piuttosto piacevole, se se ne ignorano i limiti. In particolare le conclusioni finali – ripetute immancabilmente ad alta voce, dal momento che siamo di fronte a una sceneggiatura, quella di John Logan, che della possibilità di un sottotesto ignora probabilmente l’esistenza – che di là della banalità, sono piacevoli nella loro funzione didascalica: «Ognuno ha bisogno di uno scopo. Se perdi il tuo, è come se fossi rotto». E ancora: «Se tutto il mondo era un’enorme macchina, io non potevo essere in più». Un bel messaggio con cui chiudere, senz’altro migliore del più cinico: «Il lieto fine esiste soltanto nei film». E siccome questo è un film…