Humoresque

Da Spaceoddity
Rimango ad ascoltare i globi incandescenti che rimbalzano da un capo all’altro della notte. Sospese attorno alla bara di papà e vorticosamente intervallate a facce senza sguardo, sciamanti in silenzio al centro del salotto di Irene, troppo discrete per illuminare proprio noi due, lacrime appannate di sogni che inciampano oltre la finestra e la rompono nel precipitare ai piedi del mio risveglio.
Un dolore scava il mio petto e il vento lo ristora, ma non una brezza qualsiasi: dico il vento delle foglie, quello che tira dietro di sé ciò che rimane al nostro passaggio, che so io, lo scirocco o il libeccio o il vento del demonio, a giudicare da come risucchia nel suo imbuto ingordo tutto il mio sonno e mi scarica senza fiato e madido sul letto.
Lei è giovane e, se il buio mi consentisse di indugiare tra le sue strettoie, direi che è bellissima, tanto da confondersi tra le altre ombre irreali che le volteggiano addosso e farsi seguire lungo il labirinto, lasciandomi tirare, se il caso, il filo del suo abito dietro di sé fino a spogliarla della sua fuga. Ma ha un corpo e una forma tutta sua, forse ha anche occhi nascosti che mi ritagliano dallo sfondo.
Un’ombra dalla sagoma più esile lievita fino alla sua spalla e ne sento la voce strisciarmi lungo la schiena. Non conosco la musica, ma so con che storie può incantarmi; del resto, non suonano forse per raccontare qualcosa a chi ne ignora le regole e i patti segreti? Certo che suona per me, ma chissà se rimarrà almeno un minuto dopo che il suo violino sarà sparito.
Canta gesta d’eroi, canta d’ebbri amori lasciati in riva al mare, canta senza che io capisca perché a quest’ora della notte canti anche di me. Ovvero, non di me, ma di ciò che quella notte sarei diventato, tra una nota e l’altra, senza accorgermene, dimenticando chi ero e sono sempre stato. Canta per restituirmi al futuro in cui credevo allora, quando un’altra donna si unì al mio canto perché infine mi voltassi incredulo e la lasciassi al suo eterno silenzio.
Ma io non conosco quel futuro che mi è stato rubato, né i tracciati che mi portano alla mia nascita dall’incubo o dal desiderio più remoto. Certo che non ripercorrerò questa strada, la vita a senso unico ti porta dove non sai dritto fino a qualche tua certezza, se l’hai, o a qualche certezza altrui, che ancora non conosci. Non è male, ho tanto da scoprire davanti a me. E, se non mi piace ciò che vedo, posso sempre raccontarlo con un po’ d’umorismo.
Per esempio, potrebbe aver sbagliato persona: in questo caso perderei il privilegio di raccontarmi questa storia per addormentarmi, ma perlomeno sarei solo vittima della mia insonnia e dell’irritabilità che mi provoca. Oppure potrebbe aver sbagliato notte: chissà che all’uscita della caverna io non abbia davvero raccolto le briciole di un’altra vita e cominciato a inseguire un altro futuro (era allora che lei doveva venire), ma poi una volta o l’altra non sia tornato alla confortevole ignoranza del mio destino di sempre.
O ancora potrei aver sbagliato io a sognare una donna sbattuta ai miei piedi per dirmi che non sono io, che devo tornare a essere ciò che ero, anche se ciò che ero non è necessariamente meglio di ciò che sono ora. In fondo, capitano di queste cose: butti all’aria una vita senza neanche volerla cambiare, come un gesto qualsiasi ti precipiti per non mancare un salto inutile che un attimo di reticenza ti risparmierebbe.
D’altronde, cosa sarebbe successo se non l’avessi sognata io o se l’avessi sognata un’altra notte o, mettiamo, se l’avessi sognata un’altra notte ancora? Sarei comunque qui, mi alzerei invano a chiedere un bicchiere di latte per calmare la mia sete e ripercorrerei la storia che so, per averla ben imparata nella monotonia delle domande. Il passato si identifica nelle tracce e chiami ‘storia’ quella che raccogli poco per volta dietro di te: ho lasciato troppo alle mie spalle e lo sapevo, perché l’inferno è tenebroso e non ho voluto voltarmi e vedermi svanire tra le orme. Come faccio oramai a seguire una storia alternativa?
Io non voglio più un passato da ritrattare, via, macchia dannata, via t’ho detto, voglio il mio futuro, ma di chi sarebbe il futuro (mio, forse?), se ora uscissi da questa stanza e pugnalassi anche il custode là fuori? Sparirebbe lui pure, assorbito dalla luce, insieme alla mia memoria? Sento ancora odore di sangue, da quella volta che non ero io. Dovrei tornare a essere l’uomo che ha ucciso? L’uomo la cui prigionia doveva essere sviata, e non è stata mai scongiurata, da un miracolo a cui nessuno crede ancora?
Se adesso fuggo di qua, non sarò mai il ragazzo che ha ucciso due passanti, due donne troppo amate e troppo tradite, nessuno mi restituirà mai quelle vite, la gelosia per l’una e per l’altra, la ricerca di indizi, di profumi d’altri maschi, la fuga dalle tracce troppo evidenti, il nascondiglio tra i seni dell’una alla vendetta dell’altra, né la macchina che parte, né la macchina che sfugge, né l’orrore delle mie mani, né l’oblio di tutto questo nella vendetta.
Se adesso fuggo di qua sarò un pazzo che racconta di miracoli che dovrebbero salvarlo e di visioni notturne che gli dicono di tornare a essere un assassino, anche se nessuno ricorda più quelle due donne, il loro profumo e l’odore di altri su di loro, non c’è nessuna magia nel dimenticare chi si è posseduto un po’, a cavallo tra un’ora e l’altra. Io stesso le vedo appena ribollire nella nebbia lattiginosa del mio sguardo, ne vedo le belle teste prendere fuoco, colare su di me come un sigillo di ceralacca, così facile da rompere e senza niente di certo da custodire.
Le posso anche inseguire fino alla loro morte, ma non le porterò mai indietro con me. Ingaggeranno una gara di canto, striderà sulla mia schiena l’archetto di un violino e di un’altra vita, mi volterò e le perderò ancora e non ci sarà poesia in questo, né donna con cui poetare. Ma ho tutto il futuro per ricostruire ciò che sono stato, per prendere quelle teste e affogarle giù in fondo al mio sguardo e portarle con me, solo con me, insieme a tutto il passato fino al miracolo a cui non crede nessuno.
Stride la porta, è un rumore veloce, lascio la maniglia. Ho un coltello con me e voglia di vita a sufficienza. Il custode s’è addormentato sulla sua scrivania, ora potrei farlo, il momento è propizio, ma dietro di me un’altra ombra vuol fermarmi con le mani sulla schiena e un urlo troppo alto, sveglierà tutti, qua. Mi giro, accoltello chi voleva fermarmi, l’uomo al tavolo si sveglia e prende la pistola dalla fondina, spara due colpi, uno colpisce il fantasma già agonizzante al mio fianco, l’altro prende me, con le scintille che volteggiano sull’arma, si imprimono sulla mia retina prima della pallottola e cominciano a rimbalzare, poi a rimbombare, poi a posarsi lentamente in silenzio attorno al mio feretro, tra facce attonite, finché tutto non sparisce al loro sguardo, per far posto a festoni, canti e candele nel salotto di Irene. E a una coppia che balla in penombra.

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