Lo so, non si fa: sono andata al cinema, prima di leggere il libro. C’è da dire, però, che probabilmente sarebbero passati mesi prima che mi decidessi a leggerlo, se non avessi visto il film. E vi assicuro che ora sono un’entusiasta fan della trilogia, tant’è che sto aspettando il corriere con il nuovo capitolo.
Ma andiamo con ordine. Leggere un libro sapendo, episodio dopo episodio, cosa accadrà è strano: indiscutibilmente elimina quella piacevole ansia che nasce addentrandosi nelle pagine. Tuttavia, arrivata a un certo punto non ho potuto più staccarmi dal libro, ne sono diventata prigioniera fino alla fine e l’ho chiuso con una sonora protesta.
Dopo la lettura le mie impressioni sul film rimangono positive; certo, molti particolari e non proprio irrilevanti sono stati modificati e omessi, ma nel complesso la storia si gusta senza rovinare l’opera di Suzanne Collins. Allo stesso tempo la conclusione del film non coincide con quella del libro che prosegue per circa venti, importanti pagine.
Ambientati in una possibile America distopica, gli Hunger Games sono un reality show ideato dalla centrale Capitol City, la sede del governo. I partecipanti sono ragazzi tra i dodici e i diciott’anni, due per ciascun distretto, sorteggiati nel giorno della Mietitura. No, non è un riferimento al giorno del raccolto, quanto piuttosto alla falce della morte. Gli Hunger Games hanno un solo vincitore, gli altri devono morire. La lotta inizia però, prima, per la conquista degli sponsor e del pubblico. Katniss sa bene che l’unica possibilità per sopravvivere nell’Arena è uccidere; per questo quando il nome della sorellina, Prim, viene estratto dalle mani della disgustosa quanto patetica Effie Trinket, non esiterà a offrirsi volontaria. Nata nel distretto 12, l’ultimo, Katniss ha dovuto lottare per mantenere in vita se stessa e la sua famiglia fin dalla morte del padre. Ora, però, è da sola: la madre, donna fragile e scostante, non può far altro che lasciarla partire e anche Gale, il suo miglior amico e compagno di caccia, è rimasto al distretto. Il nome di Prim, alternato a quello di Gale, si presenterà nella mente di Katniss più di una volta: il primo per ricordarle che deve ritornare, l’altro perché più volte desidererà averlo accanto.
Al suo fianco c’è un altro ragazzo del suo distretto: Peeta, il figlio del panettiere. Pur leggendo la storia attraverso gli occhi di Katniss che di lui diffida, è diventato il mio eroe. Si addossa da subito la missione di proteggerla in modo contorto e in segreto, e questo si traduce inevitabilmente in ferite mortali. Fortunatamente Peeta resiste e riesce a portare avanti la sua strategia (l’unica che crede sia davvero solo tale è Katniss), quella del ragazzo innamorato. Così gli Strateghi, i registi degli Hunger Games, decidono di cambiare le regole: quest’anno ci potranno essere due vincitori a patto che siano dello stesso distretto, ma a che prezzo?
La narrazione è diretta e fluida, con molte digressioni iniziali necessarie alle spiegazioni e più concitata una volta entrati nell’Arena. Gli Hunger Games sono un gioco macabro e non si può evitare di riflettere sulle perversioni della mente umana. A eccezione di Katniss e di Peeta, gli altri personaggi non hanno molto spazio di sviluppo e mancano, in un certo senso, di spessore. È questa l’unica nota lievemente negativa.
Lo stile di Suzanne Collins è semplice, asciutto, ma nondimeno in grado di restituire immagini forti e d’impatto. Una moderna versione di scenari degni de Il Signore delle Mosche per una società che dei reality show fa il suo pane quotidiano. La perdita della dignità e i valori umani messi in pericolo, se non cancellati, dalla lotta per la sopravvivenza.
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