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- Scritto da Luca Chiappini
- Categoria principale: Le nostre recensioni
- Categoria: Recensioni film in sala
- Pubblicato: 20 Novembre 2014
Il canto della rivolta – Parte I, prima metà del finale di saga, muove i passi dal Distretto 13, superstite dei bombardamenti della dittatura di Capitol City, dove Katniss (Jennifer Lawrence) è rifugiata dopo aver distrutto l’arena nel capitolo precedente. Sotto gli auspici di Plutarch (Philip Seymour Hoffman, scomparso a febbraio 2014 e sul grande schermo per l’ultima volta, con questo film), Katniss diventa ufficialmente la Ghiandaia imitatrice, il simbolo della ribellione dei distretti, l’icona che deve far vivere l’insurrezione e unire i popoli in una rivoluzione contro il pugno tirannico del presidente Snow (Donald Sutherland). Lontano da epiche ed esagerate battaglie, il film è anzitutto la genesi di un’idea: la ribellione non nasce spontanea ma deve germinare e fiorire. Con quell’acutezza e lucidità che da sempre hanno contraddistinto la saga di Hunger Games per la sua critica e il suo ragionamento sui media e le manipolazioni d’immagine, ci allontaniamo dall’arena dei “giochi”, da quella bolla di cristallo poco convincente dove i tributi giovanili dai vari distretti si scannavano a morte per il pubblico ludibrio del ceto benestante della capitale (ma con un’azione davvero poco intrigante, non all’altezza del più diretto predecessore, Battle Royale), con una citazione alla mitologia greca e ai tributi ateniesi inviati nel labirinto di Cnosso, per passare al “mondo reale”, con citazioni scoperte alla seconda guerra mondiale e alle tirannie in generale, impastate con i richiami al classicismo ellenico e alla monumentalità latina di cui Hunger Games è carico da sempre (basti pensare alla sfilata dei tributi de La ragazza di fuoco sulle bighe circensi o i modelli scenografici di chiaro stampo fascista cui si è ispirato Philip Messina).
Le ribellioni non nascono spontaneamente, dicevamo. Hanno bisogno di un’icona, di simboli e di codici che veicolino un ideale in grado di unire i ribelli per uno scopo comune. Quell’icona c’è: Katniss, aka Mockingjay, ossia la Ghiandaia imitatrice, un’icona chiara in grado di unire i popoli di tutti i distretti. Il film è soprattutto il racconto della chirurgica operazione dei marketing manager di Katniss per trasformarla nel volto della ribellione: gli sforzi di Plutarch e degli assistenti d’immagine Effie Trinket (Elizabeth Banks, bravissima) e Haymitch (Woody Harrelson) si fondono con la troupe video diretta da Cressida (Natalie Dormer, la Margaery Tyrell di Game of Thrones) per realizzare carismatici filmati di Katniss fra le rovine o circondata da ribelli aggiunti in computer grafica.
Il film diventa più teso e cupo, più reale e vivido: fa male, le corde che mette in vibrazione sono codificate negli orrori umani fin dal conflitto mondiale, come nella sequenza del raid aereo sul rifugio, claustrofobica e drammatica, con i ribelli rinchiusi nel rifugio anti-bomba e con una sirena d’allarme che rievoca chiaramente l’Inghilterra in guerra contro i nazisti. Dismessi i panni da teenage-fighting dell’arena, Hunger Games può ora dedicarsi a ciò che gli riesce meglio: la propria attenzione al “dietro le quinte”, ai meccanismi mediatici con cui si creano eserciti e si combattono guerre. Sotto la guida della dura e carismatica presidente del distretto 13, Alma Coin (Julianne Moore), il film si divide fra sequenze dedicate alla guerra mediatica fra ribelli e la Capitol city del presidente Snow, le scene fra le rovine dei distretti abbattuti e dei distretti in ribellione, e addirittura scene da dinamiche quasi stealth, fatte di ponderate strategie militari, furtive infiltrazioni delle basi nemiche e guerriglia nell’ombra.
Hunger Games è ora un film maturo, che convince nelle prove dei suoi interpreti (può d’altra parte contare su professionisti navigati), nelle scenografie di un paese allo stento e un popolo pronto alla rivoluzione con inquadrature che
È la lotta fra l’ideale di una rivoluzione, incarnata dall’iconica Katniss che rappresenta il fuoco, contro il tirannico potere centrale raffigurato dal presidente Snow, neve, come in un gioco di simmetrie di cui la narrazione è carica. C’è una celebre fotografia del reporter di guerra Robert Capa in cui viene immortalato Charles de Gaulle durante un discorso agli alleati prima di riprendersi la Francia occupata dai nazisti: la fotografia sembra direttamente citata, tratto su tratto, dall’inquadratura di spalle alla presidente Alma Coin che, con fare enfatico e condottiero, carica i ribelli dall’alto.
Infine, se ancora aveste dubbi, nei titoli di coda vi attende una nuova, bellissima canzone di Lorde: Yellow Flicker Beat.
Voto: 3,5