Articolo a cura di Italo Pellegrino
Ha fatto molto discutere, e scrivere, il successo del genere fantasy in questi ultimi anni. Critici e sociologi hanno visto in questi romanzi un desiderio di fuga dal presente, come se fosse difficile accettare un mondo in cui tutto pare cristallizzato in grigia decadenza.
Eppure la trilogia di Suzanne Collins sembra non rispondere affatto a questa analisi. Non è una novità immaginare un mondo vittima della guerra e sopravvissuto a se stesso, basti pensare a Terry Brooks o a Stephen King. Tuttavia qui non si torna ad una sorta di strano Medioevo, permeato di magia. Gli uomini, invece, sono schiavi di una società dominata dai mass media. La televisione ammansisce, intimorisce e droga e allo stesso tempo sfrutta la vita fino alle estreme conseguenze. La televisione, e il reality show, sono qui chiari strumenti politici e di repressione.
Come ai tempi dell’antica Creta, in cui si sacrificavano fanciulli e fanciulle al Minotauro, qui ragazzi e ragazze sono “tributi” da sacrificare al potere. Se nel fantasy la lotta tra bene e male è il perno centrale dell’intreccio, negli Hunger Games è sempre più sfumata e confusa, fino a confondere protagonisti e lettori. Il potere, il desiderio di controllare, oltre a quello, più elementare, della sopravvivenza, toglie poi ogni colore alla vita. Non è un caso che i colori accesi e forti, nei romanzi, siano quasi esclusivamente quelli spettacolari, e falsi, degli show televisivi. Man mano che si avanza nella lettura ci si rende conto che anche la speranza si affievolisce. Anche quando i sottomessi si ribellano all’oppressore sembra che si rappresenti la necessità di avere speranza, più che la fiducia in essa. Katniss, la protagonista , la Ghiandaia imitatrice, simbolo della lotta per la libertà, è un’eroina costretta ad essere tale e che paga la scelta di lottare perdendo in umanità , o meglio sacrificandone significativi aspetti.