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I 100 anni di Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena
Creato il 25 agosto 2013 da Chemako @chemako71Immaginate che all'improvviso il Governo vi vieti di parlare la vostra lingua madre. Ve lo proibisce: non potete più esprimervi nel vostro idioma con nessuno, né con i familiari, né con gli amici, tanto meno con gli estranei e negli uffici pubblici. La vostra lingua non esiste più, a scuola i maestri parlano solo nell'unica lingua ufficiale che lo Stato consenta. E se sgarrate, rischiate grosso: qualche bastonata, come minimo. Scenario improbabile e lontano da noi? Per niente! E' accaduto a Trieste e nelle zone limitrofe del Carso durante il Ventennio fascista, quando si cercò in ogni modo di eliminare la presenza slovena in uno sforzo violento di italianizzazione. Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena, ha vissuto sulla propria pelle quest'esperienza che non è stata nemmeno la peggiore della sua lunga vita, giunta il 26 agosto del 2013 al traguardo dei 100 anni.
Qui è proibito parlare è il titolo del romanzo in cui Pahor descrive la campagna di pulizia etnica messa in atto dal governo fascista nei confronti del mondo sloveno nell'estremo nord-est dell'Italia. Da bambino aveva assistito nel 1920 all'incendio del Narodni Dom, la sede principale della comunità slovena, situata in pieno centro a Trieste. Fu il primo atto terroristico compiuto in Italia dal nascente movimento fascista. E non fu un caso se si abbattè con inaudita violenza in una città appena sottratta all'Impero Asburgico con tanta retorica nazionalista e sulla pelle di centinaia di migliaia di soldati. Le complesse sfumature culturali che la città giuliana presentava costituivano solo un dettaglio insignificante per il governo del Regno d'Italia, il cui stupido processo di italianizzazione attuato dai governi del primo dopoguerra fu violentemente estremizzato da quello fascista.
Pahor ricorda tuttora che solo una banale semplificazione vede Trieste come città di cultura italiana e il Carso alle sue spalle come territorio di cultura slovena. Lo stesso Pahor, e tante persone come lui, sono stati e sono oggi cittadini triestini di cultura slovena, nati e cresciuti in città, ma la generalizzazione citata sopra resiste ancora. Ed è anche a causa di questa generalizzazione se parlare di bilinguismo per Trieste è visto come fumo negli occhi da tanti.
Eppure Pahor, per i diritti dei cittadini italiani di cultura slovena, ha combattuto anche con le armi, diventando partigiano durante il secondo conflitto mondiale e pagandone le conseguenze attraverso l'arresto e la detenzione in un campo di concentramento nazista sui Vosgi.
Sì, Boris Pahor, come Primo Levi, è un salvato, uno che ha fatto ritorno a casa dall'orrore del lager, convivendo con il senso di colpa per esserne sopravvissuto. Il racconto di questa devastante esperienza rivive in Necropoli, il libro che nel 2008 ha portato alla ribalta del pubblico e della critica italiana il nome e il personaggio di Boris Pahor. C'è solo un particolare da sottolineare: il ritardo. Il libro è stato scritto nel 1967 e venne pubblicato, nel silenzio generale, da una piccola casa editrice del monfalconese appena nel 1997. Ma le grandi case editrici si accorsero di questo piccolo (di statura) ometto solo quando nel 2007 gli venne insignita l'onorificenza più presigiosa che il governo francese tributa: la Legion d'onore. Da queste parti, allora, si son detti che evidentemente quel piccolo triestino che parla sloveno doveva avere, evidentemente, qualcosa di speciale. E si scoprì che l'ometto in questione aveva scritto parecchi altri romanzi (ovviamente in sloveno) e che aveva ricevuto nel 1992 anche la maggiore onorificenza di carattere culturale che venga riconosciuta nella vicina Repubblica di Slovenia: il premio Preseren. Necropoli, pubblicato da Fazi Editore, divenne così un caso letterario a distanza di più di trent'anni dalla sua scrittura...
Claudio Magris ha scritto su Il Piccolo del 25 agosto che l'eredità culturale italiana di Trieste sarebbe mutilata senza l'apporto di quella slovena, e viceversa. Un'affermazione tanto banale quanto vera al punto però da doverla sottolineare e ripetere, perché ancora c'è qualcuno che non la accetta. Per fortuna ci sono persone come Boris Pahor che ne sono un esempio vivente, da 100 anni.
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