Alle Politiche del 2013, gli aventi diritto al voto erano circa 47 milioni. L’affluenza alle urne fu del 75,2% (gli astenuti furono poco più di 11 milioni) e il Pd raccolse 8.646.034 voti (25,4%). Prendo in considerazione i dati relativi alla Camera, che sono quelli più congruamente rapportabili all’elettorato che nel 2014 è stato chiamato alle Europee, dove gli aventi diritto al voto erano poco più di 49 milioni e si è registrata un’astensione intorno al 42%. Superfluo sottolineare che ogni correlazione tra le due competizioni risulti pesantemente inficiata, nelle conclusioni che sembrerebbe offrirci, dalle marcate differenze date dalla diversa posta in gioco (lì i seggi di un parlamento nazionale, qui la quota di rappresentanti italiani in un parlamento sovranazionale), dal modo in cui i partiti si sono presentati all’elettorato (lì erano possibili coalizioni, qui ogni partito era in lizza contro tutti gli altri) e dal sistema elettorale vigente (lì il premio di maggioranza del Porcellum, qui un proporzionale con soglia di sbarramento al 4%), ma a quanto pare è proprio l’aleatorietà dei raffronti in termini percentuali che segnerà la vita politica italiana nei prossimi mesi. Se questo è inevitabile, e per molti versi anche giusto tenuto conto dei pessimi risultati ottenuti dal M5S, da FI e dal NCD, quello che corre il rischio di distorcere la realtà dei fatti, sovradimensionando in modo spropositato il peso del Pd, è il sottacere un dato che le percentuali sembrano fatte apposta per oscurare: nel 2014 il Pd riguadagna solo parte degli oltre 3 milioni di voti persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro riuscire a superare i 12 milioni che diedero il 33,2% al partito allora guidato da Walter Veltroni. Solo un occhio miope può lasciarsi ingannare da quel 40% e più che oggi va al Pd di Matteo Renzi, per definirlo il più ampio consenso mai ottenuto dal partito: nei fatti, lo zoccolo duro dei cattocomunisti si è rifatto la zeppa, ma di cartone, e il prezzo è stato pure alto, perché il doversi affidare a un vero e proprio mutante della sua storia e della sua tradizione culturale, perfino della sua – come si dice – antropologia, nel tentativo di riuscire finalmente a vincere, ne ha già minato irrimediabilmente il corpo. È più che ovvio che tutto questo sia destinato ad essere rimosso nei bagordi del trionfo, e oltre. Ma peserà, e il peso diventerà insostenibile quando i 38 milioni di italiani che non hanno votato il Pd di Matteo Renzi si daranno un riassetto.
Alle Politiche del 2013, gli aventi diritto al voto erano circa 47 milioni. L’affluenza alle urne fu del 75,2% (gli astenuti furono poco più di 11 milioni) e il Pd raccolse 8.646.034 voti (25,4%). Prendo in considerazione i dati relativi alla Camera, che sono quelli più congruamente rapportabili all’elettorato che nel 2014 è stato chiamato alle Europee, dove gli aventi diritto al voto erano poco più di 49 milioni e si è registrata un’astensione intorno al 42%. Superfluo sottolineare che ogni correlazione tra le due competizioni risulti pesantemente inficiata, nelle conclusioni che sembrerebbe offrirci, dalle marcate differenze date dalla diversa posta in gioco (lì i seggi di un parlamento nazionale, qui la quota di rappresentanti italiani in un parlamento sovranazionale), dal modo in cui i partiti si sono presentati all’elettorato (lì erano possibili coalizioni, qui ogni partito era in lizza contro tutti gli altri) e dal sistema elettorale vigente (lì il premio di maggioranza del Porcellum, qui un proporzionale con soglia di sbarramento al 4%), ma a quanto pare è proprio l’aleatorietà dei raffronti in termini percentuali che segnerà la vita politica italiana nei prossimi mesi. Se questo è inevitabile, e per molti versi anche giusto tenuto conto dei pessimi risultati ottenuti dal M5S, da FI e dal NCD, quello che corre il rischio di distorcere la realtà dei fatti, sovradimensionando in modo spropositato il peso del Pd, è il sottacere un dato che le percentuali sembrano fatte apposta per oscurare: nel 2014 il Pd riguadagna solo parte degli oltre 3 milioni di voti persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro riuscire a superare i 12 milioni che diedero il 33,2% al partito allora guidato da Walter Veltroni. Solo un occhio miope può lasciarsi ingannare da quel 40% e più che oggi va al Pd di Matteo Renzi, per definirlo il più ampio consenso mai ottenuto dal partito: nei fatti, lo zoccolo duro dei cattocomunisti si è rifatto la zeppa, ma di cartone, e il prezzo è stato pure alto, perché il doversi affidare a un vero e proprio mutante della sua storia e della sua tradizione culturale, perfino della sua – come si dice – antropologia, nel tentativo di riuscire finalmente a vincere, ne ha già minato irrimediabilmente il corpo. È più che ovvio che tutto questo sia destinato ad essere rimosso nei bagordi del trionfo, e oltre. Ma peserà, e il peso diventerà insostenibile quando i 38 milioni di italiani che non hanno votato il Pd di Matteo Renzi si daranno un riassetto.
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