Ei fu. Siccome immobile… quel 5 maggio svela la fragilità del tiranno, la sua resa, l’ effimero crudele splendore della sua stella. Come nella statua di Vela, immagine plastica di un Napoleone finito e malato, assorto nei pensieri di un destino ormai remoto di potenza e di gloria. Seduto in poltrona, i pochi capelli umidi di sudore e le guance scavate dalla malattia, la schiena appoggiata al cuscino, con indosso una vestaglia che gli si apre sul petto e una coperta che dalle gambe gli scende abbondante sui piedi, egli posa la mano sinistra su di una carta geografica dell’Europa, spiegazzata e aperta sulle ginocchia.
È così per tutti i grandi nel bene, ma soprattutto nel male, quando contemporanei e posteri li sorprendono en robe de chambre, in contesti domestici, indifesi dietro la corazza dell’intimidazione, della paura, della minaccia, alimentata da servitori, sudditi e agiografi. Immortalati non nella grandezza del terrore ma nella mediocrità, nella banalità del male. E se per qualcuno la condanna più cruda è stato il “culo flaccido” più del malgoverno o dei comportamenti criminali, è sicuro che male ha fatto alla verità accreditare la pazzia di Hitler più che il lucido disegno distruttivo dell’umanità e della civiltà oltre che della ragione, anche grazie a quelle delicate immagini di colazioni sull’erba lassù nei dintorni del nido dell’aquila, come se si fosse trattato di un “normale” , accettabile matto di paese, con la sveglia al collo e lo scolapasta in testa.
E male fa chi scambia giustiziare con rendere giustizia, ristabilimento del diritto con vendetta, a pensare di tutelare consenso e coscienze nascondendo le foto di una esecuzione, non sappiamo e poco importa sapere se senza resa, con resistenza, con reazione, a mani in alto o a mani sul calcio di una pistola, che, pare sia certo, era stata sostituita da 500 euro buoni per un volo low cost.
Non sono incline alla dietrologia, considero le teorie di Giulietto Chiesa suggestive ma un po’ troppo fantasiose come spesso quelle contrarie, non sono sufficientemente attrezzata per definire la figura e il ruolo nel teatro del terrore e del contro-terrore di Bin Laden.
Ma al suo accreditamento come regista dell’apocalisse e a quello degli Usa come di salvatori dell’Occidente, più ancora di quelle foto mostrate o celate, fanno male le menzogne e le verità trapelate sulla lesione dei diritti del nemico, sempre poco edificante e segno di una prepotenza iniqua e al tempo stesso impaurita, quanto i delitti che ha commesso, se non sono accertati in tribunale.
La leggenda del grande suggeritore e regista dei massacri a nome e per conto dell’Islam poco si accorda con una brutta casona, la mobilia mediocre, l’assenza di attrezzature informatiche per comunicare con l’esercito di Allah, abitudini da vecchia fattoria: tante galline nell’aia, gli abbondanti rifornimenti settimanali di latte, i ragazzini intorno.
L’immagine di un “mostro” disarmato, in pigiama, malato, isolato, incute paura alla potenza e carità ai diseredati. Certe potenze nel dilagare di conflitti, perdono di vista insieme alla giustizia, anche l’”opportunità”. Che consiste nel coniugare la sicurezza con la richiesta di libertà, di emancipazione, di equità e di giustizia. Preferiscono reagire alla violenza con violenza, alla omologazione con il conformismo, al disordine con l’autoritarsimo. Impongono identità obbligatorie, forme di sopraffazione che fanno leva sulla paura corrodendo dignità, virtù civica, diritti e diritto. Democrazie fragili dismettono costumi e usi liberali e rappresentativi di garanzie, preferendo populismo plebiscitario, fittizie mobilitazioni di massa contro fittizi nemici, assoggettano i cittadini intorno a obiettivi legati a interessi oligarchici. Succede in molti luoghi del mondo. Anche qui. I barbari sono tra noi.
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