I Beati Paoli: Intrigante Feuilleton di Sicilia

Creato il 02 settembre 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Francesca Barnabà 2 settembre 2013

Quanta distanza intercorre tra il senso di “Giustizia” e l’idea platonica di essa? Per poter esercitare la giustizia deve esistere un codice che classifica i comportamenti non ammessi in una comunità e una struttura giudicante che traduca l’osservanza della legge in una conseguente azione giudiziaria, tralasciando perfino i vincoli di sangue, purché Dike regni come amministratrice cieca ed imparziale e l’essere umano sia un semplice strumento con cui operare. Ma se essa si toglie la benda e comincia a distribuire pene e castighi a suo piacimento? Accade che qualche innocente, magari appartenente al popolo, sia impotente verso una struttura molto più grande di lui. Tutto questo, insieme agli scorci di una meravigliosa Palermo dei primissimi anni del Settecento, contribuisce a creare un piccolo affresco su una delle epoche più importanti per la Sicilia: protagonista è il contrasto tra Stato e Chiesa dal quale emerge il tentativo, da parte dei siciliani, di emancipare le menti dalla superstizione e dall’ignoranza, cercando di sollevare il popolo contro la hybris dei potenti. Il romanzo di Luigi Natoli, I Beati Paoli (uscito a puntate sul Giornale di Sicilia nel biennio 1909-1910 ed oggi ripubblicato da Flaccovio), analizza, attraverso l’immagine speculare di Palermo vista sia come città che emerge dal suolo, sia come città nascosta, fatta di grotte, di cripte e di cunicoli misteriosi, il regno incontrastato dei Beati Paoli, i quali avevano eretto proprio sotto terra il loro tremendo tribunale. Decisamente non conformi all’ottica del supereroe i Beati Paoli, armati di coltelli e spade e protetti da una maschera e dal favore delle tenebre, cercano di ristabilire nel corso della narrazione l’equilibrio iniziale, spezzatosi con l’usurpazione del potere da parte del duca Raimondo della Motta. Ma se fosse solo questo l’intento programmatico dei Beati Paoli sarebbe ben poca cosa: durante tutto il racconto il lettore è guidato a chiedersi il senso vero e autentico della giustizia e se i mezzi con i quali è esercitata sono altrettanto leciti al pari di quelli ufficiali.

Ma in questo interrogarsi da parte del lettore emerge chiaramente una domanda: se i Beati Paoli agiscono persuasi della giustizia della loro causa perché si nascondono? Essi non si conoscono tra loro, legati dal silenzio e dall’impossibilità di denunciarsi. La giustizia del re è amministrata da uomini che vedono in essa non un dovere, ma un salario; al contrario, la giustizia dei Beati Paoli «non è scritta in nessuna costituzione regia, ma è scolpita nei loro cuori: la osservano e costringono gli altri ad osservarla. Non hanno giudici né soldati per farla rispettare ma porgono l’orecchio alle voci dei deboli che non hanno la forza di rompere quella fitta rete di prepotenza entro la quale si dibattono». Con un rituale di iniziazione che ricalca il modello massonico, questi uomini si uniscono nel segno della fratellanza e di quel sentimento religioso discendente proprio da San Paolo, leader carismatico del mondo cristiano. I personaggi del romanzo possono, a prima vista, sembrare stereotipati e piatti: vi è il buono, il cattivo, la bella e la rivale ma alla fine del libro chi legge ha la sensazione di aver frainteso e di non essersi accorto di alcune sfumature; non vi sono personaggi totalmente cattivi o eroici ma vi sono uomini e donne che sono mossi dalle umane passioni: l’ambizione, il potere, l’amore e il senso di giustizia e per soddisfarli ricorrerebbero a qualsiasi mezzo, che sia esso lecito o illecito. In una Palermo che odora di incenso e d’arancio, un gruppo furtivo di uomini incappucciati, detti Beati Paoli, si muove in modo misterioso, scambiandosi qualche sguardo d’intesa e pronti a colpire: se son uomini d’onore o Robin Hood siciliani starà al lettore capirlo. A voi l’ardua sentenza.


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