Il recente summit del G-20 di Los Cabos, in Messico, è stato caratterizzato da un cambiamento fondamentale nella geopolitica della finanza internazionale. Le economie emergenti hanno destinato miliardi al fondo d’emergenza dell’FMI (Fondo Monetario Internazionale) destinato a fornire un sostegno aggiuntivo alle nazioni dell’eurozona nel caso di un aggravamento della crisi del debito. I BRICS hanno accettato di contribuire mediante una somma superiore ai 70 miliardi di dollari, con la Cina impegnata con la somma più alta di 43 miliardi di dollari. In una mossa tanto politica quanto era necessario, le nazioni BRICS hanno invitato il FMI a far passare le riforme delle quote concordate nel 2010, al fine d’incrementare la rappresentanza e il contributo nel voto delle economie emergenti, in particolare quelle del BRICS. La configurazione attuale è nelle migliori delle ipotesi anacronistica e non riesce a riflettere gli enormi cambiamenti nell’economia globale avvenuti nel corso degli ultimi decenni.
La governance del FMI è in gran parte determinata da un sistema di ripartizione del diritto di voto tra i paesi membri. Il FMI riceve i propri finanziamenti da due meccanismi, gli Accordi Generali di Prestito (i cui contributi sono direttamente collegati alle quote di voto) e i Nuovi Accordi di Prestito (contributi bilaterali che integrano i fondi esistenti). Tutte le decisioni importanti devono essere fatte con una speciale maggioranza dell’85% dei voti. Nell’attuale sistema, gli Stati Uniti mantengono il 17.4% delle quote, avendo in sostanza un diritto di veto. Le 27 nazioni dell’UE detengono una quota pari al 30.9%. Negli ultimi anni, i “mercati emergenti” come la Cina e l’India hanno utilizzato la loro recentemente riconosciuta importanza economica per rendere l’organizzazione più multilaterale. Tenendo presente la necessità di aumentare la loro legittimità in un clima economico in evoluzione, il FMI ha approvato due serie di riforme nel 2008 e nel 2010. Le riforme del 2010 sostenevano la necessità di un aumento del 100% delle risorse di quota e di un riallineamento delle quote tra gli Stati membri.
Le modifiche proposte influenzano positivamente le economie del BRIC. Le quote di voto della Cina aumenterebbero notevolmente, diventando così il terzo membro più importante del FMI. Anche India, Brasile e Russia aumenterebbero le loro quote di voto per diventare i primi 10 maggiori azionisti del FMI. Al momento, le riforme necessitano di essere ratificate dai paesi membri. Il più importante paese a resistere finora sono gli Stati Uniti. In vista delle prossime elezioni presidenziali, sembra improbabile che il Congresso americano ratificherà le riforme in qualsiasi momento prima della scadenza di ottobre. La riforma delle quote in sé stessa può fare ben poco per smuovere lo squilibrio di potere esistente. Le economie del G7 vedono diminuire il loro diritto di voto dal 43% al 41.2%. L’Asia registra il maggiore aumento delle quote di voto, ovvero del 3.3%. La Cina rappresenta la maggior parte di questo aumento (2.1%) con India, Singapore e Corea del Sud che sperimentano pure modesti incrementi. Nel complesso, il continente africano potrebbe subire una riduzione delle quote di voto dal 6.2% al 5.6%. L’obiettivo di aumentare la rappresentanza non significa necessariamente riconoscere una certa forma di potere. Anche all’interno delle nazioni BRICS, le quote del Sudafrica saranno ridotte dalle riforme.
La diminuzione in rappresentanza dei paesi a basso reddito e delle altre nazioni “in via di sviluppo” non è sorprendente. L’obiettivo degli ultimi due cicli di riforme è stato quello di placare “i mercati emergenti e i paesi in via di sviluppo” (maggiormente i primi rispetto ai secondi). Invece di ridistribuire le quote esistenti, il FMI ha aumentato il loro numero e conseguentemente la rappresentanza è migliorata senza scuotere lo status quo. I governi dei paesi BRICS hanno espresso la loro insoddisfazione per il ritmo delle riforme. Con il FMI focalizzato sulla crisi del debito dell’euro, per le nazioni BRICS può essere più semplice cercare di comprendere la fattibilità di una “Banca di sviluppo BRICS” piuttosto che imporre qualsiasi tipo di significativa riforma all’interno del FMI.
E’ importante notare i differenti interessi delle singole economie BRICS nel favorire le riforme. La pretesa della Cina di una significativa rappresentanza, nell’attuale quadro economico basato sul PIL, è molto più forte rispetto alle altre economie. Il governo cinese si sta muovendo anche verso l’internazionalizzazione del renminbi, che non è attualmente parte del riconosciuto “paniere di valute” in cui sono parzialmente espressi i prestiti del FMI. Ma i cinque paesi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in occasione del vertice, affermando che i contributi sono stati fatti con la consapevolezza che le riforme saranno adottate. Per quanto il FMI ribadisca il suo impegno a cambiare l’equilibrio di potere, i vincoli istituzionali per quanto riguarda la formula delle quote continuerà a privilegiare le nazioni “avanzate”, anche se la loro quota calcolata in base al PIL mondiale si è ridotta drasticamente negli ultimi tre decenni.
Per la prima volta, i prestiti del FMI possono essere utilizzati per “salvare” le economie dell’eurozona in difficoltà rispetto alle nazioni a “basso reddito” a corto di liquidi. Le nazioni BRICS hanno utilizzato il fondo d’emergenza per affermare la loro importanza economica all’interno del FMI, ma il loro contributo non si tradurrà direttamente in maggiori quote di voto, per non parlare di un cambiamento a lungo termine della governance. Per ora, l’attenzione rimane focalizzata nel sostenere le riforme del 2010, ma il problema più grande riguarda legittimità e pertinenza del FMI. E per questo, sono necessarie riforme più ampie, per renderla un’istituzione multilaterale e rappresentativa.
(Traduzione dall’inglese di Francesco Brunello Zanitti)