Quando l’editore Samuel Fischer propose al venticinquenne Thomas Mann di pubblicare un vero romanzo, dopo l’incoraggiante esordio con la novella Il piccolo signor Friedeman del 1898, non si sarebbe mai aspettato che il giovane e promettente scrittore di Lubecca gli proponesse un’opera imponente, capace di condensare la grande tradizione del romanzo ottocentesco europeo e di proiettarla in avanti, nel secolo che si stava aprendo. Il romanzo, col titolo I Buddenbrook – Decadenza di una famiglia, venne pubblicato in due volumi nel 1900, ma passò inosservato. Convinto della qualità dell’opera del giovane Mann, Fischer ripubblicò il romanzo nel 1901 in edizione economica, stavolta ottenendo un successo di vendita, destinato a rimanere costante nel tempo. Sulla traccia della propria biografia familiare di ricchi commercianti in declino, fatta riaffiorare attraverso il dialogo con i familiari, in particolare col fratello maggiore Heinrich (con il quale aveva inizialmente pensato di scrivere il romanzo a quattro mani, come gli amati fratelli de Goncourt), con I Buddenbrook Thomas Mann affresca la parabola di una famiglia borghese agiata della sua città natale Lubecca, dall’apogeo, rappresentato dall’inaugurazione della nuova maestosa casa di famiglia, fino alla dissoluzione del nome, con la morte dell’ultimo discendente maschio in età adolescenziale, nell’arco di quattro generazioni collocate storicamente nella parte centrale dell’ottocento, anche se il contesto storico rimane marginale nello sviluppo del dramma, limitandosi ad erompere alla ribalta solo in frangenti importanti come i Moti del 1848 e la Guerra Austro-Prussiana.
La saga della decadenza della famiglia Buddenbrook scorre parallela all’ascesa della rivale famiglia Hagenstrom, un membro della quale acquisterà la villa dei Buddenbrook, messa in vendita per far quadrare i conti; rivalità non solo economica, ma anche nell’attività politica dell’amministrazione cittadina. Ma ciò che corrompe la stabilità della famiglia è un cancro tutto interno, che si manifesta nel dualismo tra eredi validi e inetti; nei fallimenti di matrimoni combinati, sacrificando i sentimenti alla gloria familiare; nell’incapacità della migliore borghesia di sostituirsi alla nobiltà, nella conservazione del casato e nel lasciare un’impronta durevole nella società. La relativa facilità con cui, grazie al profitto, si assurge a una posizione dominante, nel capitalismo, non produce automaticamente una tradizione di famiglia destinata a durare nel tempo. Il ruolo marginale che Mann riserva all’arte in questo spaccato dell’alta borghesia è emblematico: impersonato da eredi che si perdono dietro le ballerine e violiniste mancate, fino alla figura del fatale Hanno, il bimbo malaticcio sul quale erano riposte tante speranze e che invece troverà nel pianoforte l’unico sollievo della sua breve vita. Qui sta la differenza tra la grande aristocrazia del passato e i Buddenbrook: nell’incapacità di cogliere nell’arte nient’altro che un vacuo orpello, dimenticandosi proprio della sua incomparabile capacità di eternare. Mann coglie l’incompatibilità tra arte e capitalismo borghese in tutta la sua portata, essendo questa fonte di un dissidio interiore avvertito fin da ragazzo.
Ma la saga dei Buddenbrook è soprattutto la metafora di un secolo in cui l’orizzonte sereno e imperturbabile del positivismo viene invaso progressivamente dalle nebbie dello scetticismo e del nichilismo. La posizione raggiunta, simbolizzata dalla maestosa casa di famiglia, da spazio all’autocontemplazione, contaminando il pragmatico spirito mercantile che ha consentito tali risultati con il dubbio sul valore in sé del successo economico. La ricca borghesia, incapace di gettare fondamenta culturali che trascendano l’orizzonte materialista e funzionalista per legittimare la propria egemonia sociale, finisce per ripiegarsi su sé stessa, colmando il vuoto esistenziale di vite dedicate esclusivamente al profitto con il senso della catastrofe imminente e dell’abbandono superficiale alla fede. Anche stilisticamente I Buddenbrook si pone come spartiacque tra la tradizione del romanzo europeo ottocentesco, in particolare le titaniche architetture narrative di Balzac e Zola, e la dissoluzione della forma novecentesca. Se l’impianto narrativo del romanzo appare come il più raffinato sviluppo della tradizione, l’inedita penetrazione psicologica, in linea con le coeve ricerche psicanalitiche di Freud, anticipa stilemmi tipici del romanzo novecentesco, da Kafaka a Musil.