Nel libretto “Senza trama e senza finale” di Anton Cechov, l’autore russo parla del suo lavoro, e ovviamente descrive il suo rapporto con il pubblico. Anche lui pensava che era qualcosa sul quale non contare troppo. In fondo, meno cerchi qualcosa e più ci sono probabilità che tu venga trovato. Meno ti preoccupi del pubblico, e maggiori sono le possibilità di intercettarlo. Come questo avvenga è ignoto, e proprio per questo direi di non preoccuparsene troppo. Esistono ottime probabilità che alla fine si rimanga da soli.
La soddisfazione per Cechov è trovare appunto pochi buongustai capaci di cogliere quello che un autore dice. Quando si entra in sintonia con costoro è una festa. Non importa la quantità, il loro numero; che ci siano è indubbio, e scovarli è la vera impresa di chi scrive.
Bizzarro modo di ragionare, e che rischia di lasciare indifferenti.
In un tempo come il nostro, dove tutti aprono un blog e dicono la loro, e che soprattutto desiderano (in maniera comprensibilissima) molto seguito, perché soffermarsi sul pensiero dell’autore russo?
Non saprei. O meglio: lo so benissimo, però mi rendo conto che non è affatto semplice spiegarlo. Inoltre, non credo nemmeno che sia necessario. Ciascuno può agire come meglio desidera, purché sia chiaro che non c’è un modo soltanto, e che il successo o l’insuccesso dimostrano tutto e niente.
La forza della parola è tale che quando se ne è consapevoli, e si possiede il talento, avere due o tre buongustai è sufficiente. Ci dicono che stiamo andando nella giusta direzione.
Come? Chi ci dice che siano buongustai e non chiacchieroni? Interessante: e chi ci poteva garantire che Tolstoj fosse appunto Tolstoj, e non uno che scriveva in modo abbastanza corretto, ma niente di più?
I buongustai? Forse. Però quello che mi interessa non è farne l’identikit, bensì ricordare come lavora un autore con ambizioni. Un Cechov per esempio, lavora sulla parola per immettere dei punti del tutto inutili per chi legge, sì, anche per il critico. Inutili secondo una certa economia letteraria.
Ma la buona letteratura è composta anche di zone “banali”, di territori che si attraversano quasi di fretta, perché là davanti c’è l’azione. E i lettori non ci prestano alcuna attenzione.
Mi rendo conto che spesso non mancano affatto i punti dove la storia gira a vuoto. L’autore sembra essersi preso una pausa. Ma il buongustaio è in grado di riconoscere quello che funziona, da quello che funziona e trasmette in filigrana qualcosa di sublime e potente; e questo sfugge alla maggior parte dei lettori.
Quindi una scena di vita familiare appare ai lettori come una scena di vita familiare e basta, in attesa della tragedia. Il buongustaio ci vede al contrario qualcosa di differente. Una specie di messaggio dell’autore che indica appunto che quella è una famiglia serena, e non si tratta solo di un espediente per allungare il brodo. Desidera comunicare un concetto ma lo fa quasi in punta di piedi, con discrezione.
Chi scrive con criterio, adagia parole con la consapevolezza che non c’è nulla di inutile, ma ciascun elemento ha un suo ruolo. Spesso è solo il buongustaio che se ne rende conto.