Mai come in questa seconda parte dell’anno si è assistito a un progressivo calo di competitività del nostro calcio. Un declino che ha chiaramente radici lontane e che non è ascrivibile a una sola causa ma che ha, coi pessimi risultati conseguiti al Mondiale brasiliano della nostra Nazionale e con le palesi difficoltà dei nostri maggiori club europei nelle manifestazioni in corso, raggiunto livelli d’emergenza nel momento in cui scriviamo.
Con l’avvento di Conte, qualcosa sembra essersi mosso verso una valorizzazione di nuove risorse, certamente presenti tra i nostri calciatori, ma troppe volte nascoste o lasciate svanire.
A dire la verità, i 9 punti in 3 poco probanti partite delle qualificazioni a Euro 2016, sono frutto soprattutto di una mentalità radicata nel nostro modo di giocare, ed escludendo la convincente prova contro l’Olanda in amichevole (la prima assoluta con in panchina il nuovo tecnico) sul piano del gioco abbiamo assistito a “spettacoli” invero non eccezionali.
Difficile tra l’altro anche per i più volenterosi provare ad attingere a piene mani da un serbatoio azzurro che stenta a produrre giocatori pronti per le grandi ribalte. Si badi bene: non giocatori validi tecnicamente – quelli ne abbiamo, basta osservare le competizioni giovanili, non ultima il recente Europeo Under 21 che ci ha visti cedere le armi solo in finale contro i favoritissimi spagnoli -, ma giocatori pronti, già fatti e finiti.
Già che si stia puntando su un’inedita coppia di attaccanti (Immobile e Zaza, oltre alle convocazioni di Pellè, Destro e El Shaarawy) ci lascia intendere che la voglia di rinnovamento c’è, ma obiettivamente la missione diventa quantomeno ardua, se teniamo conto che le nostre migliori squadre sono infarcite sempre più da giocatori esteri (non tutti propriamente dei campioni).
In questo modo risulta automatico andare a pescare tra le rose delle squadre medie/basse dove almeno figurano più italiani, con la conseguenza però che pochi di loro potranno avere sulle spalle quella esperienza minima, necessaria per affrontare competizioni internazionali importanti.
Tutto il contrario di ciò che accade all’estero dove, dati alla mano, si nota come quasi tutti i giocatori che entrano stabilmente nel giro delle proprie nazionali, lo facciano molto prima dei nostri corrispettivi, limitando a pochi anni la propria gavetta e riducendola anzi a un fisiologico inserimento nelle loro squadre dal cui vivaio provengono.
Analizzando le attuali rose della serie A, risulta che gli italiani sono solo in leggera maggioranza rispetto agli stranieri (e nel caso di alcune nostre big, addirittura in inferiorità, basti pensare ai casi di Inter, Napoli o Fiorentina); ancora meno quelle che si affidano a talenti cresciuto nel loro vivaio. Solo Empoli (con una media superiore, visto che provengono dalle giovanili Bassi, Moro, Signorelli, Pucciarelli, Pelagotti, Dossena, Shekiladze, Cammillucci, Valdifiori e i lanciatissimi Tonelli, Hysaj e Rugani) e Atalanta sembrano davvero credere nel valore e nell’importanza dei propri talenti, e vedono il settore giovanile non solo come una possibilità di assestamento, ma anche come fonte di investimento. Altri esempi dicono l’opposto: negli anni buoni (decennio 2000, che l’ha vista vincente a più livelli) la Juventus è riuscita a portare in prima squadra i soli Marchisio – l’unico a imporsi anche in azzurro – e Giovinco; il Milan e l’Inter hanno fatto, se possibile, ancora peggio, visto che nell’ultimo lustro hanno ceduto a cuor leggero, all’estero, i vari Cristante (i rossoneri), Santon, Donati e Caldirola (i nerazzurri). E la rotta non l’hanno invertita nemmeno le ultime due vincitrici del campionato Primavera, Lazio e Chievo. Se i biancocelesti hanno comunque dato buone chances a Onazi e Keita di misurarsi con i “grandi”, la squadra della Diga ha invece optato per una politica diversa, non tenendo in rosa neanche un giocatore tra quelli che hanno furoreggiato per tutto la scorsa stagione, conclusa con una storica affermazione. E si parla di una squadra non dai grandi mezzi finanziari, in piena lotta per non retrocedere. Davvero nessuno tra quei giocatori avrebbe potuto fare alla causa del Chievo? Il vero problema che si trova ad affrontare Conte nel tentativo di far tornare competitiva la Nazionale maggiore è trovare un ricambio generazionale pronto per le ribalte internazionali.
una provinciale come il Chievo ha vinto con merito l’ultimo campionato Primavera, eppure nessuno tra quegli interessanti prospetti ha trovato quest’anno posto nella rosa della prima squadra
Un proposito difficile da realizzare visto che, tolta la Juventus, le altre squadre che giocano in Europa, comprese Torino e Lazio, nel loro 11 hanno ben poco di italiano. La rosa attuale, specie in ruoli come la difesa e il centrocampo, necessiterebbe di aria nuova. Verratti da due anni spopola nel Psg, visto che in patria nessuna squadra ha scommesso su di lui, ma viene visto ancora come vice – Pirlo. Ci sono Florenzi e Poli che sgomitano ma tra i convocati figurano anche Giaccherini, Parolo e Candreva, con alle spalle una lunga gavetta, impensabile per i giocatori tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli, per non dire argentini o brasiliani. Giack ha giocato con Forlì, Bellaria, Pavia e Cesena, prima di approdare tre anni fa, 26enne alla Juventus. Parolo, anch’egli un 85, partito dal Como, ha girovagato a lungo con Pistoiese, Verona e Cesena (all’epoca in serie C), affermandosi in Romagna nella massima serie, prima di passare al Parma e da quest’anno alla Lazio. Dove è diventato sempre più un leader Candreva, 27 anni, che sin da giovane era protagonista nelle varie under azzurre, quando militava nel vivaio della Ternana. Eppure si è affermato solo due anni fa giungendo nella capitale, dopo gli anni a Terni, il breve passaggio a Udine, la rivelazione a Livorno, la bocciatura prematura alla Juventus e nuove tappe intermedie a Parma e Cesena. Poli e Darmian, considerati ancora come promesse, hanno già 25 anni, un’età in cui all’estero, se hai talento, sei già affermatissimo. Il terzino poi, ex giovane stella del Milan (che in quel reparto certamente non brilla in quanto a interpreti), e tra i pochi a salvarsi dal naufragio azzurro ai Mondiali brasiliani, nella sessione di mercato estivo sembrava a un passo dalla Roma ma poi è rimasto in granata, con i giallorossi che nel ruolo gli hanno preferito Cole e Holebas. Non vanno meglio le cose in difesa dove si sta finalmente dando fiducia a Ranocchia ma mancano riserve all’altezza, per la semplice ragione che i nostri interpreti giocano in squadre di bassa classifica o in cadetteria. Astori, che nei piani della Roma dovrebbe essere titolare a fianco di Manolas, ha comunque 27 anni e prima d’ora mai aveva calcato grandi ribalte, diventando una bandiera del Cagliari di Cellino, dopo anni di gavetta addirittura in serie C, con Pizzighettone e Cremonese.
All’estero è diverso. Eclatanti i casi delle due super potenze espresse nelle ultime edizioni dei Mondiali. Spagna e Germania, diverse come cultura calcistica e modo di intendere il gioco, sono però simili nel voler imporre un modello che si basa sul gioco propositivo, brillante, fresco, reso possibile anche dal continuo rinnovamento, nonostante una base già di prim’ordine. La Spagna, giunta alla fine di un ciclo irripetibile, si è già assicurata un futuro, inserendo in blocco quegli stessi giocatori che si stanno da anni imponendo in ambito giovanile, Under 19, 20 e 21. Il materiale è ottimo, con i vari Isco, Alcantara, Illaramendi, Rodrigo emersi nell’ultimo Europeo Under 21 e che stanno mantenendo le promesse, così come ha avuto un impatto devastante la ventunenne punta del Valencia Paco Alcacer, con 3 reti in altrettante gare in questa prima fase di qualificazione europea. Hanno già esordito anche il terzino Bernat, classe ’93, e la punta El Haddadi, addirittura classe 1995! E che dire di Koke, leader dell’Atletico Madrid e protagonista di una stagione splendida? Sono davvero pochissimi, a differenza dell’Italia, gli over 30 dell’attuale rosa delle Furie Rosse (in pratica il solo Casillas; Iniesta invece ne farà 31 nel 2015).
Ancora più emblematico il caso della Germania, prima al Mondiale con una delle rose più giovani (era la quarta in assoluto con un’età media di 26 anni e 114 giorni, dietro solo a Belgio, 26 anni e 15 giorni e le due africane Nigeria e Ghana, addirittura sui 25 anni) ma che lo stesso sta sentendo l’esigenza di rinverdire ulteriormente i suoi ranghi. Lo dimostrano gli innesti di giocatori come Kramer, Ginter, Durm o Rudiger, tutta gente di 20, massimo 21 anni. In rosa i soli Grosskreutz, prima di affermarsi definitivamente al Borussia Dortmund, dove era cresciuto, o i nomi nuovi Bellarabi e Kruse hanno alle spalle un po’ di gavetta in seconda serie tedesca ma nessuno tra i big (Muller, Ozil, Khedira, Reus, Neuer, il solo Hummels ma con la seconda squadra del Bayern dai 18 ai 20 anni) ha faticato per emergere tra i grandi, non avendo mai giocato in seconda serie, e men che meno in terza.
Il Belgio, con un copioso numero di figli di immigrati che ormai costituiscono la base per tutte le loro rappresentative, e l’Olanda vantano sì rose giovanissime (età media attorno ai 26 anni e mezzo, inferiori a Spagna e Francia che sono oltre i 27) ma allo stesso tempo esperte. Gli oranje vantano un gruppo di giocatori che si sta imponendo nelle maggiori squadre europee o sono comunque protagonisti ad alti livelli in patria, dove scarseggiano gli stranieri a favore della piena valorizzazione dei vivai nazionali (emblematici i casi di Ajax e Feyenoord, con quest’ultimo che in prima squadra vanta ben 17 giocatori provenienti dal proprio settore giovanile, di cui 6 finiti stabilmente in Nazionale).
Questo è l’esempio da seguire per il calcio italiano: occorre dare la possibilità ai migliori interpreti di esprimersi a certi livelli, senza incorrere a gavette lunghissime, col serio rischio che arrivino agli appuntamenti importanti ormai a un’età in cui all’estero i coetanei hanno già accumulato preziosa esperienza in più. Si tratta di un percorso lungo e che comporta un radicale cambio di mentalità ma sicuramente percorribile, visto che – cosa più importante – il materiale umano su cui lavorare è comunque di prima qualità.