Anna Lombroso per il Simplicissimus
Una volta una ragazza carina poteva percorrere due strade. Uscire in gruppo con altre ragazze carine, graziosa tra altre graziose in una costellazione di fanciulle in fiore, gradite all’occhio di passanti nello struscio. Oppure scegliersi compagne di passeggiata brutte, in modo da spiccare con la sua leggiadria. La stampa italiana, che peraltro carina non eè, ha scelto la seconda strada e soprattutto in tv – i giornali ormai, disdegnata la preghiera del mattino, si sfogliano velocemente in rete – propina gremlins, facce patibolari, monachelle lagnose o burbanzosi cretini, prepotenti killer del congiuntivo e anestetici altoparlanti di comunicati, in modo che si esalti la differenza tra Gruber e Santanchè, tra la bella e la bestia, tra lo sgangherato teatro del non sense e il costumato distacco degli opinionisti, tra il ghigno schiumante rabbia dei gladiatori e la sovrana indifferenza degli osservatori, l’idolatria incoerente degli adoratori della reliquia e l’ironica distanza dei testimoni privilegiati.
Ma mica ci crederete. Nel marasma sconnesso e sguaiato, nel confuso profluvio di parole, affermazioni convinte e compunte smentite, nella liturgia dei formalismi svuotati e delle leggi eluse, i sedicenti carini hanno un ruolo da protagonisti. Non solo ripetitori, non solo spettatori, mai davvero informatori, mai indipendenti, mai “disinteressati”, i giornalisti italiani sono stretti in un vincolo di complicità con la cattiva politica, legati per la sopravvivenza, quella professionale e quella identitaria. Chi sarebbero senza la mummia, i suoi vizi pubblici e privati, il suo cerchio ormai tragico e grottesco insieme, le sue ganze e i suoi scherani, i suoi cani di tutte le razze compresa quella umana, in questo caso degradata, con cosa riempirebbero le pagine, inadeguate a incartare le scarpe da risuolare, senza le esternazioni di d’Alema, le recensioni di Veltroni, le sbruffonate vernacolari di Renzi, le intercettazioni pruriginose, secondo un rovesciamento delle regole e delle funzioni che ha contagiato papi e scienziati, intellettuali ammesso che ci siano e economisti, attricette e tronisti.
Considerando degradante e riduttivo il compito di fornire dati e informazioni accertate ai cittadini, pare che la loro missione sia “essere l’opinione pubblica”, dettarne il pensare, orientarne le preferenze e inclinazioni, figuranti nello spettacolo, indispensabili per somministrare al pubblico quello che i potenti vogliono far sapere, quello che le stanze segrete vogliono rivelare, quello che chi vive in distanze siderali e indifferenti vuol lasciar sfiorare dalle nostre dita, per trasmettere l’illusione del contatto.
Per dirla con Brecht: “Per chi sta in alto discorrere di mangiare è cosa bassa. Si capisce: hanno già mangiato”. E infatti nessuno ormai si meraviglia che gli intervistatori abbiano dismesso l’uso della domanda, utilmente e prodigalmente inclini a lasciar dire senza obiettare. Serenamente comunicano alla Sora Lella davanti alla Tv che «la distribuzione della ricchezza è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione: molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza; all’opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza elevata»., oppure illustrano al sor Giovanni pensionato a 800 euro al mese che “La strategia Europa 2020 punta a rilanciare l’economia dell’UE nel prossimo decennio. In un mondo che cambia l’UE si propone di diventare un’economia intelligente, sostenibile e solidale”, o anche ricordano a Giovannini le sue parole di poco più di un anno fa “I dati, già allarmanti, sul rischio povertà diffusi dall’Istat sono destinati a peggiorare nel corso dell’anno. Quei dati, non tengono conto ancora della difficile situazione del 2012”, senza nemmeno lontanamente sognarsi di chiedergli conto di quanto pensa di fare il suo dicastero nel governo del quale fa parte per invertire la tendenza a precipitare nel baratro, indifesi.
Oggi le boriose icone che partecipano ai talkshow, gli altezzosi opinionisti che non si peritano di far si con la testa a Crosetto, di stuzzicare, ma dolcemente, la Biancofiore, di vezzeggiare la Moretti, respingerebbero con sdegno l’antico soprannome con cui si chiamavano i giornalisti parlamentari “trombettieri”. Ma magari lo ridiventassero, magari trasmettessero all’esterno senza censure e autocensure quello che sentono e vedono e non quello che gli conviene pensare e dirci, magari proprio come noi si scandalizzassero invece di gioire e contribuire allo spettacolo indecoroso, magari gli venisse almeno una volta di esclamare che l’imperatore è nudo, è cretino, è un criminale. Invece di esaltarne le caratteristiche più oscene, perché aiutano a vendere e a vendersi.
Oggi mi torna in aiuto Brecht che dice: «Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l’ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l’accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l’arte di renderla maneggevole come un’arma; l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l’astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese». Invitando a usare la verità in modo tale che divenga un’arma e al tempo stesso con tanta astuzia che il nemico non si accorga che gliela porgiamo e non possa impedirlo. Non so a voi ma a me proprio non si addice il pacifismo disarmato di chi ha paura della verità.