Tralasciando Poroshenko, novizio della politica internazionale, gli altri due elementi del quadretto, Putin e la Ashton, sono entrambi due spine nel fianco di Lukashenko. Per motivi molto diversi. Lukashenko, da anni considerato da Usa ed Ue “l’ultimo dittatore d’Europa”, dopo le elezioni presidenziali del 2010 e dopo l’arresto di diversi oppositori nelle settimane seguenti, si è visto imporre dall’Unione Europea una serie di sanzioni che di fatto l’hanno isolato politicamente ed economicamente: un giro di vite voluto proprio dalla Ashton, che l’aveva formalmente indicato come persona non grata all’interno dell’Ue.
Un isolamento che di fatto ha obbligato Lukashenko a rafforzare i rapporti di buon vicinato con la Russia, ritenuta in Occidente l’unico alleato della Bielorussia: in realtà, oltre l’alleanza militare nella CSTO e la partnership commerciale nell’Unione Eurasiatica i rapporti tra Mosca e Minsk non così cordiali come può apparire.
Qualche anno fa, una popolare trasmissione satirica sulla TV di Stato russa dipingeva il leader bielorusso come un amico invadente e gaffeur, sempre pronto a chiedere soldi agli amici Putin e Medvedev impegnati a ricevere ospiti al Cremlino, e per questo enorme fonte d’imbarazzo: certo, una immagine esagerata adatta ad una trasmissione comica, ma non per questo lontana da come a Mosca Lukashenko veniva etichettato, ovvero un amico sì, ma da non ostentare più di tanto, visti i suoi trascorsi con l’Europa e considerato che la Russia per lui è soprattutto una fonte di sostegno economico. Come quando nel 2011 la Bielorussia si è trovata a un passo dal default, evitato grazie a un maxiprestito dell’Eurasec (una sorta di BERS dello spazio ex sovietico) che Mosca garantì, chiedendo in cambio la (s)vendita dei principali asset energetici del Paese.
Un rapporto che con la Russia non è mai stato “rose e fiori”, caratterizzato spesso anche da colpi bassi reciproci, come quando nel 2010 Gazprom chiuse le forniture di gas alla Bielorussia per morosità, e come quando per ripicca Lukashenko ricevette con tutti gli onori a Minsk l’odiatissimo (dai russi) presidente georgiano Saakashvili, a cui promise che non avrebbe mai riconosciuto l’indipendenza delle due repubbliche secessioniste filorusse dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. Un gesto, quest’ultimo, emblematico del personaggio-Lukashenko: costretto a sottostare ai diktat del Cremlino per ragioni di forza maggiore ma sempre pronto a tirare il colpetto proibito al vicino russo.
Com’è che allora una figura così discussa si è trovata allora nel prestigioso ruolo del padrone di casa nel più importante vertice di pace degli ultimi anni, per giunta alla presenza di quella stessa Ashton, che non voleva nemmeno che l’aereo presidenziale bielorusso si avvicinasse ai cieli d’Europa? Forse proprio perchè gliel’ha chiesto l’ex Lady PESC.
Una Conferenza di Pace sotto l’egida dell’Ue sarebbe stata a rischio-flop, con conseguenze ovviamente negative per l’immagine di Bruxelles: molto più gestibile invece avviare i colloqui di pace a latere di un summit già in agenda, su tematiche ufficialmente non legate alla crisi ucraina, come il vertice dei Paesi membri dell’Unione Eurasiatica in programma ad agosto appunto a Minsk.
E’ molto probabile che, in vista di ciò, già dalla scorsa primavera Ue e Bielorussia abbiano avviato colloqui informali per avviare innanzitutto un disgelo tra di loro: la conferma sarebbe la liberazione del dissidente bielorusso Alek Byalyatsky, rilasciato a sorpresa lo scorso giugno su richiesta di Bruxelles, in cambio probabilmente di un ammorbidimento delle posizioni dell’Europa contro la Bielorussia. Fatto sta che la presenza stessa di Catherine Ashton accanto a Lukashenko di per sé suona come la concessione di un nuovo credito politico al governo bielorusso: come lo sfrutterà il leader bielorusso è ancora da definire. Certo è che è improbabile che rimanga sulle sue posizioni di qualche mese fa, quando aveva lasciato intendere una sua intenzione di non ricandidarsi per un nuovo mandato presidenziale.