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Ora, io mi chiedo: se dopo aver tradotto Jonathan Franzen sono diventata un'ornitofila, e dopo aver tradotto questo racconto mi sono ritrovata gli elefanti al piano di sopra (i nuovi vicini sono rumorosi quanto le cheerleader), forse dovrei sperare di tradurre un libro in cui qualcuno vince alla lotteria? "L’uomo al piano di sopra si ferma un momento, giusto per aumentare la tensione, e poi ricomincia, all’inizio più adagio, andando da est a ovest e poi di nuovo a est, dirigendosi verso il lato dell’edificio affacciato su Fifth Avenue; fa una pausa per orientarsi, per guardare il panorama, immagino, prima di dirigersi a ovest; fa una pausa proprio qui sopra, per stuzzicarmi, prima di rimettersi in movimento per qualche minuto, stabilendo l’andatura con moto oscillante, seguendo il tracciato delle pareti dell’appartamento – il suo identico al mio, perfettamente identico – e poi c’è un’altra pausa, e io mi piego all’indietro per esaminare il soffitto e sento, in lontananza, il suono dei colpi nella sua cucina, e infine – forse cinque minuti dopo, forse di più – torna indietro e comincia, persistente e regolare, senza la solita aggressività, come se mi avesse dimenticato, messo da parte, come se avesse rinunciato al suo desiderio di vendetta, offrendomi una tregua dalla natura dei suoi colpi. Forse una tregua di cinque minuti, più o meno, perché è impossibile indovinare quanto dureranno questi momenti di silenzio che si aprono al piano di sopra, sapendo, durante l’attesa, che i colpi ricominceranno, se non con un rumore di tacchi, allora sotto qualche altra forma: forse il suono del martello che usa per piantare i chiodi (è un grande piantatore di chiodi. Appende quadri a tutte le ore), oppure il tonfo gommoso della stampante in funzione (è un grande stampatore, sforna documenti nel cuore della notte, all’alba e al tramonto), o il tonfo del materasso che urta contro le doghe, accompagnato dal sibilo delle molle (il sibilo non è ufficialmente un colpo, certo, ma funziona come una specie di arabesco, un ornamento ai colpi del materasso che arrivano dopo qualche indolente oscillazione del letto). Altri suoni che potrebbero rientrare nella famiglia dei colpi mi si accumulano nella mente questo pomeriggio, un’intera storia di schianti fragorosi cominciata due anni fa, il giorno in cui venni ad abitare qui – una cornucopia di rumori diversi che comprendevano botte su pentole/padelle, il tonfo sordo dell’intonaco, lo sgocciolio gorgogliante dell’acqua, il risolino stridulo e graffiante che andò avanti per una settimana, i gemiti incessanti, e l’angoscioso sospiro di abbandono che si levava a intermittenza e che da principio mi era sembrato umano ma poi, nel giro di qualche giorno, aveva assunto un carattere meccanico, ripetuto, dal quale avevo capito che si trattava di una registrazione, una sorta di nastro in loop. Era un tipo così, lui. Disposto a fare ben oltre il necessario per scoprire come produrre un nuovo rumore, e per scoprire come ripeterlo all’infinito. Era il tipo che avrebbe imparato una nuova tecnica, un nuovo modo di appoggiare il tacco a terra, di alzare le dita del piede in modo che scuotessero un’asse del pavimento, per poi lavorare con efficienza da ginnasta – tutto ossa e muscoli – per trasmettere il suono attraverso il nudo pavimento prebellico, fatto di tavole di quercia dure e risonanti, abbastanza solide da resistere ai colpi più violenti. (...)"
David Means, dal racconto I colpi, in Il punto. Traduzione mia
© 2014 Einaudi, Torino
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