Magazine Cinema
di Mirko Locatelli
con Filippo Timi, Jaouher Brahim
Italia, 2013
genere, drammatico
durata, 94'
L'ultima volta che il cinema d'autore italiano si era avventurato in maniera così ardita all'interno di una struttura ospedaliera lo aveva fatto con il bel film di Gianni Amelio "Le chiavi di casa" storia di una guarigione al contrario, con un padre in crisi esistenziale salvato dall'amore per il figlio paraplegico abbandonato in tenera età. Un percorso umano in parte simile a quello di Antonio, giunto a Milano insieme al figlioletto Pietro in procinto di essere operato per una grave patologia. Durante la degenza in ospedale Antonio ha modo di incrociare parenti e amici degli altri pazienti, entrando in contatto con una piccola comunità di emigrati nordafricani, e in particolare con il giovane Jaber artefice di una solidarietà che i pregiudizi di Antonio rendono difficile da accettare. Una diffidenza che rischia di far precipitare le cose quando Antonio scopre addosso al figlio un unguento taumaturgico che Jaber gli ha spalmato di nascosto. Alle prese con il suo secondo film di finzione Mirko Locatelli dimostra la sua ambizione raccontando una storia che prende di petto due temi universali come quelli della malattia vista attraverso gli effetti che produce nei rapporti tra le persone che ne sono in qualche modo colpite, e poi, non meno importante, dell'integrazione analizzata attraverso l'incontro/scontro tra Antonio e Jaber.
Un menù fitto di implicazioni e di spunti a cui Locatelli applica lo stesso metodo usato da molti colleghi che alla pari di lui si sono fatti le ossa nel documentario: pensiamo ad esordi recenti come quello di Bruno Oliviero con "La variabile umana" oppure Leonardo di Costanzo, regista de "L'intervallo" (2012). Un approccio evidente fin dalle prime sequenze quando Locatelli, piuttosto che raccontarci le premesse che hanno portato Antonio davanti ai nostri occhi, preferisce farcele scoprire attraverso un vero e proprio pedinamento (camera a mano a riprendere di spalle la sagoma del protagonista) che nel rispetto del cinema verità, abituato a subordinare la volontà del regista a quella dell'oggetto filmato, si produce in un referto naturalistico in cui abbondano ripetizioni e tempi morti. In questo modo osserviamo Antonio alle prese con la routine di un'attesa logorante e impotente, fatta di telefonate alla moglie rimasta a casa con l'altro figlio, e poi constatiamo la sua voglia di risollevarsi dallo stress di notti insonni, quando con la scusa di guadagnare dei soldi inizia a lavorare ai mercati generali caricando e scaricando cassette di frutta. Un lavoro di sottrazione che riguarda anche i contenuti e in primis la costruzione del personaggio principale su cui Locatelli fa confluire segni di tipo opposto quando sceglie un attore come Filippo Timi che fa dell'esuberanza fisica uno dei suoi marchi di fabbrica e poi lo impiega in una recitazione che nella dilatazione del gesto sembra condannarlo a una reiterata implosione, ben sintetizzata dall'abitudine di Antonio di ascoltare il notiziario stradale, trasmissione radiofonica neutrale ed asettica che fa da specchio al suo modo di rivolgersi al mondo.
E sono proprio le movenze di Timi, ripreso tra le corsie d'ospedale come un leone in gabbia, il dialetto (toscano) strascicato e certe volte impossibile da decifrare e poi il suo imbarazzo di fronte al figlio che non riesce ad aiutare, a costituire le cose migliori dell'opera. Quando invece il film si sposta sul piano dell'analisi sociale, registrando l'inversione di tendenza che sta livellando la disparità esistente tra italiani ed extracomunitari (un fenomeno già messo in evidenza da Ivano De Matteo nel suo "Gli equilibristi" (2012) e poi confluisce in un finale che rilancia la consapevolezza di un'uguaglianza resa tale dalla condivisione della stessa sofferenza, "I corpi estranei" non riesce a cambiare passo, rimanendo insolvente rispetto ad una indagine che si colloca sulla superficie dei fatti. Chiamata ad essere la cartina di tornasole di una condizione universale, l'esperienza di Antonio rimane appesa alle incertezze di una drammaturgia che a colpi di reticenza giunge spompata alla resa dei conti, quello che deve rendere il senso di scoperta e di accettazione dell'excursus umano compiuto dal protagonista. Primo film italiano in concorso "I corpi estranei" rimane schiacciato dalla sue pretese e non riesce ad incidere
(pubblicata su ondacinema.it/speciale festival di Roma)
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