Magazine Animazione
I Croods (2013, tit. or. The Croods) di Kirk DeMicco e Chris Sanders è un cartone animato in stile videogioco, come da anni se ne vedono molti al cinema, ma è anche veicolo di una dialettica tra certezze e azzardo, tra le scommesse facili su ciò che si conosce e i coraggiosi salti nel buio. È senz'altro un lungometraggio ideologico - e non che questo rappresenti un problema, anzi. Ma perché venga interpretata al meglio, la sua morale dovrebbe essere un po' centrifugata dall'eccessiva vena fantastica. Realizzato con leggerezza scientifica, all'insegna di un estro combinatorio visivamente efficace, I Croods non stanca mai e diverte moltissimo con il gusto del paradosso, nonostante la prevedibilità "didattica" del suo happy end. La sceneggiatura - forse qua e là troppo prosaica - non pecca neanche di stucchevole ecologismo o di siparietti melensi, anzi, gioca molto su attese disallineate e talvolta contraddittorie. La famiglia - modernissima - che ne emerge non è un aggiornamento dei Flinstones, ma coglie di quella e delle nostre le strutture topiche - e se si vuole anche i pregiudizi - che ce ne consentono la comprensione proficua e immediata. Entrare nel meccanismo narrativo non è affatto problematico e in certi passaggi - sbrigativi sul piano naturalistico - è davvero spassoso (le scene in cui vengono addomesticati canidi e felini, per esempio, oppure quell'incantevole soluzione finale dell'arca di Noè rivisitata).
I personaggi sono stereotipi e anche sul piano visivo la paternità della DreamWorks si fa apprezzare - per esempio - in certe espressioni che indubitabilmente rimandano a Shrek e Fiona, per non parlare della selva dei comprimari. Anche nelle voci (i ruoli principali sono stati affidati nell'originale americano a Nicolas Cage, Emma Stone e Ryan Reynolds) si è voluto mantenere un equilibrio consolidato e non rischiare (un po' alla maniera di Grug). I Croods, che procede per sequenze e atti simbolici di facile decodifica e che propone un messaggio opinabile quanto si vuole, ma almeno positivo, offre uno spaccato di quello che altrove dovrebbe essere risolto, non in forma definitiva ma sempre con urgenza, come un problema: l'apertura della nostra vita a ciò che la seguirà, a ciò che è e sarà altro (e, magari, trascendente). Nel film si coglie benissimo lo stato d'animo di un gruppo di persone che vede ancora nel futuro scorie, tracce o almeno memoria del passato e solo di quelle ha terrore (la paura è soltanto un ricordo, cantava il magnifico De Gregori di un tempo). Il tema, più che la trama, è dunque meritevole di grandissima attenzione: mi chiedo soltanto per quanto tempo ancora continueremo a proiettare il futuro nel passato per poterne discutere al sicuro da possibili delusioni, forse nella vana speranza di anestetizzare il mondo di oggi e i nostri contraddittori atteggiamenti. Questo vorrei, non un cinema che rinunciasse alla fantasia e al calembour, ma un'arte che ancora ci proietti in un'altra dimensione oggi. Un cinema al quale dire, come il "vecchio" Grug al giovane "Guy": E va bene, portaci nel domani.
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