Scopro con piacere che il romanzo di Valter Binaghi, I custodi del talismano (in vendita anche qui), ha trovato finalmente casa editrice (Sottovoce edizioni, 2010).
Ho avuto la fortuna di leggerlo ancora inedito alcuni anni fa e ne ho scritto una scheda/recensione. Credo che sia un romanzo che merita attenzione e (perché no?) buona sorte, perché è un lavoro serio, ben fatto, appassionante da leggere, opera di un bravo artigiano di storie.
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I custodi del talismano ha tema e impianto di romanzo storico, ma in esso la narrazione si eleva a consapevole meditazione sull’aura dell’oggetto simbolico, sul significato del conoscere e sulla difficile trasmissione della cultura (nel senso di sapienza) attraverso gli uomini e i tempi, e del suo intrecciarsi con la Storia. L’autore giostra con perizia attraverso i molti piani di lettura dell’opera, ed è capace di dispiegarli senza appesantire il testo, anzi arricchendo di senso un intreccio narrativo serrato, ben scritto, avvincente, divertente nel senso pieno della parola, a tratti entusiasmante.
Ad aprirne le pagine, il romanzo potrebbe passare come un colto divertissement per un pubblico smaliziato, tutto un gioco di rimandi a fonti antiche e medievali che invita il lettore a creare da sé il proprio apparato di note a piè pagina. Vi si narra l’apparizione di un singolare manufatto in epoche storiche di crisi di civiltà, in tre luoghi di civilizzazione (celtica, latino-greca, romano-barbarica), nelle transizioni a un nuovo ordine. È il mondo mediterraneo nel trapasso tra antichità e medioevo, sapienza e ignoranza, e i tentativi di coloro che per vocazione o per sorte si trovano a essere i custodi del manufatto, appunto il talismano del titolo.
La prima parte del romanzo trasporta il lettore all’inizio del II secolo a.C., alla vigilia della riconquista romana della Gallia Cisalpina e al definitivo assoggettamento dei Celti Insubri dopo la spedizione di Annibale. Un vecchio druido, un io narrante senza nome, si appresta a discendere col suo giovane assistente Herno attraverso le brume fino al villaggio nella valle, per mettere all’opera la sua antica arte di guaritore. Il druido è però malato, sa che gli rimane poco, troppo poco tempo per istruire il suo assistente, e il pensiero della morte imminente si mescola alla malinconia per la decadenza del suo popolo, rammollito dal clima e dagli alimenti mediterranei e infine stretto dappresso dalle legioni romane.
“Forse accade a certi popoli come ai cani e alle vacche da latte: sopravvivono ben oltre la decenza e muoiono di vecchiaia, sdraiati al sole con le ossa fradice”.
Il vecchio ricorda se stesso giovane apprendista, incaricato dal maestro in punto di morte della custodia del Talismano, una “strana coppa chiusa e sigillata come un vaso“, che secondo le ultime parole del maestro “contiene le ceneri mortali dell’eroe che ora è un dio. Sparse al vento, colmeranno il mondo di una grande luce“.
L’autore mescola abilmente in questa prima parte elementi di mitologia celtica (il calderone che contiene il corpo dell’eroe morto in battaglia, pronto a tornare in vita), il senso di un’antica conoscenza sciamanica, e testi di Tito Livio.
La seconda parte del romanzo è un grande affresco filosofico e militare (termini qui non in contraddizione) che prende spunto dalle cronache di Ammiano Marcellino sulla vita e la morte dell’imperatore Giuliano. Alla metà del IV secolo d.C., il procuratore romano di Arles, Valerio Rutilio, rifugiatosi con moglie e servi in una grotta per sfuggire a una scorreria di Alamanni, legge una lunga lettera di un liberto siriaco, Phanes, servitore del fratello Claudio, prefetto militare al seguito di Giuliano, cultore di filosofie neoplatoniche e da due anni creduto caduto nella battaglia in cui l’imperatore perse la vita. Scorrono così progetti (“la sospirata riforma del mondo“), speranze, amori e misteri nella vita di un soldato/filosofo che intreccia la propria vita con quella di Giuliano (colui che poi si guadagnò dai padri apologeti l’epiteto ingiurioso di Apostata).
“Io credo che il mondo sia come una storia, ma scritta da tutti noi. Se un giorno gli uomini non avessero più nulla da scrivere, si, credo che il mondo potrebbe finire…”
La terza e ultima parte del romanzo, più complessa narratologicamente e forse la meglio riuscita, è ambientata nel Sud e Centro Italia di età carolingia. Un figlio bastardo di poveri contadini, orfano a causa della peste, è dato come oblatus al monastero di Vivarium (fondato da Cassiodoro nel VI secolo nel golfo di Squillace), qui descritto come un monastero benedettino. A Vivarium il ragazzo, io narrante, riceve un’istruzione, stringe un’amicizia con risvolti erotici con un “bellissimo e maledetto” naufrago bizantino e viene introdotto a libri greci “tossici e pericolosi” di scienze naturali e alchimia. A venti anni viene mandata in missione con un anziano compagno a Roma con l’incarico di consegnare al papa un misterioso calice arrivato dall’Oriente, “la più preziosa reliquia dell’intera cristianità. Vero pharmakon per la salvezza del mondo“. Il calice dell’Ultima Cena, in cui sono raccolte le gocce del Cristo.
A Roma il giovane esce dalla Chiesa e dà inizio a una vita di peregrinazioni e conoscenza, per morire anni dopo come i genitori di peste, solo, non essendo stato capace di sottrarsi al destino di violenza, inganno e morte degli esseri umani, col rimpianto di aver buttato via il talismano simbolo di guarigione e salvezza. La sua morte, struggente mescolanza di invettiva contro un dio creatore, indifferente al destino di dolore di tutte le creature, e memoria, scandita dalle rivelazioni delle quattro porte e dei quattro Guardiani della demonologia apocrifa orientale, lascia come sospesa nell’aria un’ultima immagine.
“Qualcosa persiste e si muove lontano nel buio ed io, che non ho più nome né figura ma solo l’inerzia dell’antico volere, continuo a seguire, come vele nel vento, le mani bianche della mia bambina”
I custodi del talismano, romanzo storico più che fantasy, dal solido impianto documentale, può affascinare lo stesso pubblico che consuma opere di Eco, Valerio Massimo Manfredi, Robert Harris, Bernard Cornwell, ecc.
La prosa di Binaghi non è forse immune da barocchismi, ma è uno stile personale di scrittura, mai irritante, con senso del ritmo, gusto nell’alternare descrizione, pathos, digressioni teologico-filosofiche che, pur approfondite (nei giusti limiti di un lavoro di narrativa), non stancano e danno al lettore il gusto dell’avventura intellettuale.
Per quello che posso giudicare, la ricostruzione storica è sicura, non si dilunga in minuzia descrittiva ma è capace di richiamare integralmente con pochi tocchi ampie scene umane e sociali. I personaggi principali parlano, agiscono riflettono secondo gli atteggiamenti mentali – spirituali – propri dell’epoca in cui sono calati. Non ci sono anacronismi (o quasi, la lettera di Phanes non può essere composta di “fogli” ma dovrebbe essere un rotolo continuo di papiro, data l’epoca; Vivarium non era un monastero benedettino e in età carolingia non esisteva più, ma questa è consapevole licenza dell’autore, visto il carattere emblematico della prima biblioteca monastica del mondo occidentale). La delineazione della psicologia dei personaggi maschili è viva e credibile. I tre custodi sono diversi, l’uno è uomo di saggezza ancestrale, l’altro esplora l’inquietudine della crisi della secolare cultura filosofica e civile antica, il terzo è una vera “coscienza infelice” vittima della disperazione tra un dio che non risponde e la finitezza e illusorietà dell’essere e del sapere umano.
C’è notevole competenza nell’uso delle fonti, antiche, bizantine, arabe, medievali, storiche, mediche, liturgiche, enciclopediche, e maestria nel comporre i pastiches indispensabili al romanzo storico. L’esibizione di cultura “alta” non è fine a se stessa, ma piuttosto risponde allo zelo didascalico dell’autore verso il suo pubblico.
La compenetrazione di generi (storico, tragico, comico, erotico) non diluisce infine la potenza metaforica di questo romanzo. Solo per brevi cenni: l’evocazione dei ricordi come una ben strana alchimia; la custodia del talismano come preservazione della memoria, e l’idea che lo scrittore sia il custode del bene più caro; l’oggetto simbolico come arma potente, ma ambigua, incerta, a cui ognuno attribuisce un significato personale, come tratto dalle profondità di anime diverse; l’infinita nostalgia per quello che il tempo inghiotte; l’eclisse (questa sì moderna) della redenzione.
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