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I danni dell'amore condizionale

Da Paterpuer @paterpuer
Arrivo da lui dopo una settimana di assenza (era con i nonni) e il suo sorriso mi accoglie scendendo di corsa le scale e mostrandomi il libro che ha spolverato dai vecchi scaffali: "Papà, è un libro che parla degli animali, l'ho preso per te". Io però sono angosciato da mille altri pensieri, sono stanco, sono irritato per fatti miei e quasi evito di concedere troppi sorrisi, lo tratto con troppa freddezza. Paola me lo fa notare ma io sono "sequestrato" dal mio stato d'animo e non riesco a prendere le redini. È capitato la settimana scorsa, capita anche a chi si rappresenta bene nei blog, di essere qualcosa di diverso dal desiderabile.
A bocce ferme mi domando se Samu abbia voluto essermi vicino pensando a me con spirito d'empatia o se le mie testarde idee animaliste lo abbiano indotto a cercare amore facendo ciò che - sapeva - avrei potuto gradire.
L'amore è incondizionato (specialmente quello dei genitori deve esserlo), non è cieco, è amore e basta. Non è privo di consapevolezza, non manca alle sue responsabilità educative, è e deve essere senza condizioni (ora, se proprio uno c'ha per figlio Hitler magari se ne può anche parlare...).
In alcuni contesti borghesi la freddezza è uno strumento pedagogico, madri nullafacenti attente alla rappresentazione sociale di sé (ciò che in pubblicità e marketing chiamiamo "posizionamento strategico") che si scioglie solo se i figli adottano le regole della società; lo stesso schema di comportamento vede come protagonisti genitori anaffettivi (sì, il termine è ormai abusato ma è pur sempre valido); voglio però che non colpisca me e mio figlio.
Se fai quel che ti dico, se dici quel che voglio tu dica, se sei come io decido che tu sia, allora ti voglio bene. Le peggiori torture psicologiche non sono ad esclusivo appannaggio di chi non bazzica gli anfratti dei manuali di psicologia, riguardano anche me, il sottoscritto. Però non voglio.
In un contesto in cui tutto è performance, in cui ci si descrive per il proprio lavoro, in cui la misura della persona è sempre più determinata da un feedback legato al salario, in cui tweet e post, iPad e iTunes, digitale terrestre e satellitare, aperitivi e selfie ostacolano il silenzio, avere la sicurezza dell'amore incondizionato è quantomai necessario per crescere in equilibrio. In questo humus i bambini hanno bisogno di poter dare un nome a ciò che provano, di poterne parlare e soprattutto di poter vivere sentimenti ed emozioni. Tutto questo non è possibile se chi li affianca è incapace di distinguere fra amore e approvazione; se chi li guida è alessitimico (cioè non sa dare nome ai propri stati emotivi e non sa comunicare le proprie emozioni).
Quando l'amore condizionale diventa la regola, si cresce con la logica (il valore) della merce, si sviluppa una personalità contrattuale, si diventa bottegai dei sentimenti, si rischia di voler raccattare amore ovunque, senza rispetto per sé, senza logica, senza esito; si finisce per vivere male qualsiasi relazione.
Serve una alfabetizzazione emotiva? Sì, serve, e serve soprattutto perché troppe cose ci portano lontano dall'autenticità delle emozioni e del sentire. Serve perché se è normale domandarsi cosa faranno i nostri figli, chiedersi se riusciranno ad avere un lavoro stabile e gratificante, deve essere ancora più normale chiedersi quale ricerca di senso, di identità, di vita sia presente nel loro cuore. Eppure è una domanda che spesso non ci sfiora nemmeno.
Io penso che tuffarsi e nuotare insieme nelle emozioni sia una delle cose più belle della vita, una delle cose più intime e necessarie che genitori e figli possano fare assieme. L'altra sera sono rimasto a bordo vasca e spero proprio che la scelta dello stile di nuoto non sia stata condizionata dai miei gusti (anche se poi siamo rimasti tutti e due all'asciutto).

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