Anna Lombroso per il Simplicissimus
E tutti a dire che la sentenza di condanna del management della Thyssen aveva un valore storico. Io compresa. Ma a pensarci bene è più immersa nella storia quella di ieri che ha negato l’assassinio da lavoro, assolvendo gli ex dirigenti di Montefibre di Acerra di ben 87 omicidi da amianto: sono stati condannati alla pena di un anno e otto mesi, poi sospesa, per una sola delle morti per cancro. Accusati di omicidio colposo, con la sentenza di ieri gli otto imputati dovranno risarcire il danno esistenziale agli operai sopravvissuti, sono due le prescrizioni, per i restanti 85 decessi il fatto non sussiste. Che tanto quella brutta storia è finita nel 2004, quando la Montefibre – la principale società mondiale nella produzione e vendita di fibre acriliche e poliestere – ha cessato ogni attività nel comune di Acerra. Non c’è più legge nè comandamenti, non c’è più la fabbrica, non ci sono più i delitti.
Altro che Thyssen, questo processo più che segnare la storia ci riporta dentro, con un ritorno al passato, quella di prima che tra gli anni Settanta e Ottanta la classe operaia e più il generale quella dei lavoratori dipendenti ottenesse miglioramenti importanti della propria condizione, a un tempo con un salto nel futuro, quello che ci aspetta.
I francesi chiamano quel tempo trascorso i gloriosi Trent’anni, e effettivamente decine di milioni di persone hanno avuto per la prima volta un’occupazione stabile e relativamente ben retribuita. Rispetto a quando proprio nel nostro paese, intorno al 51, anno del primo censimento dopo la guerra migliaia di braccianti lavoravano 140 giorni l’anno, su chiamata mattutina di un caporale e pagati una miseria.
Per un largo strato sociale un impiego stabile nell’industria ha rappresentato un progresso. Sono stati aumentati i salari reali, sono stati introdotti i sistemi pubblici di protezione sociale, dalle pensioni al sistema sanitario nazionale, si sono ridotti i tempi di lavoro e allungate le settimane di ferie retribuite. Insomma si sono estesi i diritti dei lavoratori a essere trattati come persone e non come merci che si adoperano quando serve e si buttano via quando non sono profittevoli, grazie a riforme legislative sospinte da imponenti lotte sindacali.
Ma risale ai primi anni Ottanta quella che è stata giustamente definita una controrivoluzione: le classi dominanti si sono impegnate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe dall’alto per recuperare la potenza e i privilegi perduti.
Si sono ridotti i salari reali, ovvero i redditi da lavoro, reintrodotto condizioni più rigide nelle fabbriche e negli uffici, per far salire la quota dei profitti sul Pil erosa dagli aumenti salariali, dagli investimenti, dalle imposte. Insomma come è evidente la lotta di classe oggi è quella mossa dai vincitori, il ceto capitalistico transnazionale, contro i perdenti, un ceto che si estende sempre di più.
Non è vero che le classi non esistono più come la destra o la sinistra. Una classe sociale esiste indipendentemente dall’esistenza o dall’espressione delle formazioni politiche che le riconoscono l’esistenza e vogliono rappresentarla o testimoniarne. Farne parte significa appartenere volenti o nolenti ad una “comunità di destino”, avere più o meno facoltà di godere di risorse e beni,anche quelli comuni, di salire o scendere nella piramide sociale, di disporre del potere di migliorare la propria esistenza di renderla più civile, più gradevole e addirittura più lunga.
Si è detto in tempi più opulenti che le divisioni sono state aggirate dalla omogeneizzazione dei consumi e degli stili di vita. Si è detto che era giusto superarle perché operai, dirigenti, dipendenti padroni siamo tutti nella stessa barca, addirittura quello che credevamo il peggior ministro del lavoro degli ultimi 150 anni, non avendo provato questo, che dovevamo essere “complici” per temperare il conflitto strutturale. Ma un conto è lo stile di vita, un conto sono i consumi di massa, un conto è un condiviso senso di responsabilità inteso all’interesse generale e un conto è la qualità del lavoro, la possibilità di crescita personale e professionale, la probabilità si salire o scendere nella scala sociale, la possibilità di immaginare per sé e i propri figli un futuro migliore.
Un conto è essere dalla parte di chi gode dei “dividendi” e chi è riconosciuto solo come numero su un cartellino. Un conto è avere a cuore l’efficienza del lavoro, la sua produttività augurandosi che si ripercuota sull’intero sistema e un conto è invece aspirare all’efficienza del mercato del lavoro, la maggiore o minore facilità di licenziare, l’evaporazione delle garanzie, l’annientamento dei diritti.
La vertiginosa piramide delle disuguaglianze locali e globali non si spiega solo con il conflitto tra l’efficienza e l’equità del sistema. È frutto dell’oggettiva iniquità che ispira le scelte economiche e politiche, la conservazione delle posizioni di monopolio, il peggioramento delle condizioni di lavoro, la compressione dei salari mediante le delocalizzazione, lo spostamento del frutto dei profitti dagli investimenti al gioco d’azzardo finanziario.
E il caso dell’Ilva è paradigmatico, come lo è lo stillicidio di casi di “cronaca” che denunciano il degrado della sanità pubblica, impoverita dalle inefficienze, dalla corruzione e infine devastata dei tagli. Ormai siamo una classe sempre più estesa e ricattata, sempre più defraudata e impoverita, sempre più espropriata e ridotta al silenzio. Costretta a scegliere tra diritti e sopravvivenza, tra salute e impiego. Avvilita nelle speranze e nella dignità.
Ci vogliono moltitudine umiliata da spostare in massa nel grande suk precario della flessibilità, secondo le esigenze dei padroni. Dobbiamo essere senza aspirazioni, senza desideri e quando ci tolgono la vita dobbiamo essere dimenticati in fretta, seppelliti senza nemmeno riconoscimenti postumi, che non abbiamo nemmeno il diritto di sapere di cosa ci hanno contagiati a morte.