Per i fanatici della sintesi analogica è sempre un bel momento quello in cui qualcuno decide di chiamare a raccolta un centinaio di musicisti e ingegneri del suono più o meno noti e farli parlare di Buchla, Moog, Eurorack, DAW, mentre scorrono carrellate di bottini di guerre consumate su siti come Modulargrid o Vintage Synth Explorer e in svariati gruppi di Facebook. Aggiungete un racconto che ripercorra in maniera stringata e moderatamente accattivante sessant’anni di storia dei sintetizzatori e otterrete quello che si può definire un prodotto di probabile successo.
I più svegli avranno già visto qualcosa di simile qui e di un po’ meno simile qui, ma stavolta la narrazione del passato è il pretesto per parlare del presente.
Se la premiere di “I Dream of Wires – Theatrical Cut” è stata presentata lo scorso 26 aprile ad Ashville, North Carolina, all’interno di quella fiera pornosynth che è ormai il Moogfest, una hardcore edition di quattro ore era già uscita in dvd e Bluray alla fine del 2013. Il regista Robert Fantinatto e il producer Jason Amm (aka Solvent, che ha curato anche la colonna sonora) hanno infatti poi deciso di limare gli aspetti più tecnici del documentario e trasformarlo in qualcosa di vendibile a un pubblico di appassionati non necessariamente addetto ai lavori. Non avendo potuto essere presenti a un’altra premiere, quella berlinese del 28 luglio (con annesso live di Morton Subotnik), abbiamo deciso di intervistarli via email e farci raccontare qualcosa in più.
Ciao Robert, ciao Jason. Com’è nata l’idea di realizzare “I Dream of Wires”?
Robert: Sono da sempre interessato alla musica elettronica, ma le mie tastiere sono rimaste in soffitta per molti anni. Nel 2010 uno dei miei figli ha iniziato a lavorare con dei software musicali e così le ho ritirate fuori, le ho ripulite e ho ricominciato a essere ossessionato da loro. Sempre mio figlio, qualche tempo dopo mi ha mostrato la foto di un Buchla che Deadmau5 aveva postato su Facebook e ricordo di essere rimasto davvero sorpreso dall’idea che i synth modulari potessero essere ancora in produzione. Risucchiato ormai dal vortice, ho iniziato a pensare a un documentario e un anno dopo Jason ha preso parte al progetto.
Jason: Conoscevo appena Robert quando mi ha parlato della sua idea di realizzare un documentario sui synth modulari, ma ho pensato subito che fosse un’occasione straordinaria, poiché l’esplosione del Rinascimento modulare era nell’aria. Mi sono venute un sacco di idee su chi contattare e sugli argomenti da trattare, e mi eccitava il fatto che questo fosse il primo documentario a occuparsi seriamente dell’argomento. In realtà ero sorpreso che nessuno ci avesse pensato prima. Io sono un musicista elettronico e non ho mai avuto velleità documentaristiche, ma dopo aver discusso del film con Robert mi sono entusiasmato e ho deciso di partecipare.
Quali sono i vostri sintetizzatori preferiti? E i vostri synth-album preferiti?
Robert: Non mi considero un vero musicista come Jason, ma ci sono dei synth che preferisco; la cosa divertente è che un sintetizzatore modulare è una macchina diversa ogni volta che la patchi, quindi è difficile legarsi emotivamente a essa, come accade con un synth programmato. Per me il miglior synth è il primo che ho acquistato, un Sequential Circuits Pro One, che possiedo ancora. Per quanto riguarda i miei dischi preferiti, direi Computer World dei Kraftwerk.
Jason: Io e i sintetizzatori vintage analogici abbiamo una relazione di lunga data, ho un debole per alcuni classici che uso da vent’anni e oltre. Probabilmente i miei preferiti sono il Roland System 100 e il Roland Jupiter 6, ma mi ispirano parecchio anche i meravigliosi moduli Eurorack che sono usciti di recente e direi che al momento questa è la roba che preferisco suonare. Adoro in particolare i moduli di Intellijel, Make Noise e Modcan. Il mio disco synth preferito è Upstairs At Eric’s degli Yazoo. Ma sono anche un grande fan di Aphex Twin.
Moog o Buchla?
Robert: Direi Moog, ho suonato in giro con un Buchla e ho trovato il suo approccio al design piuttosto oscuro! Comunque sono talmente abituato a lavorare con il Moog e alla sintesi sottrattiva che dopo qualche ora a smanettare riesco a tirare fuori i tipici suoni alla Buchla Bongo.
Jason: Dal documentario potrebbe sembrare che abbiamo una preferenza per il Buchla, perché la maggior parte dei musicisti che abbiamo intervistato usa i synth modulari, più flessibili, profondi e, perché no, “esotici”. Oggi la sintesi alla Moog suona un po’ old school, è diffusa un po’ ovunque e credo che i più avventurosi tra i programmatori (come quelli che abbiamo intervistato) siano più stimolati dall’approccio del Buchla poiché è ancora un territorio relativamente nuovo e inesplorato. Non intendo dire che è davvero qualcosa di nuovo, perché l’azienda produce synth modulari dagli anni Sessanta, ma non è mai stata tanto diffusa né compresa dalla cultura pop come la Moog. Quindi penso che lo stile del Buchla suoni più eccitante e “fresco” ai nostri giorni. Detto ciò, se dovessi scegliere tra un Buchla modulare e un Moog modulare, sceglierei il Moog, anche se, come accennavo sopra, amo davvero i nuovi moduli Eurorack ispirati al Buchla.
Spesso chi ama i synth è anche un appassionato di libri e film sci-fi. Per voi la musica ha un legame con la sci-fi?
Robert: Direi di sì. Anche se “2001 Odissea nello spazio” è il mio film preferito di tutti i tempi, musicalmente sono sempre stato ispirato dalle opere J.G. Ballard e dal suo esplorare gli spazi interiori.
Jason: Personalmente credo che questo sia un po’ un cliché della musica elettronica, e in realtà non sono particolarmente interessato alla sci-fi. Ad ogni modo capisco l’appeal che può suscitare e in qualche modo ne sono attratto anch’io. Ad esempio amo gli elementi sci-fi nei primi dischi di Gary Numan, però preferisco un suono più umano nella musica sintetica, come quello dei Soft Cell o di Aphex Twin, che non a caso sono i miei musicisti preferiti.
Nelle interviste con Trent Reznor, Vince Clarke, Jack Dangers, Chris e Cosey, si intravedono i loro studi di registrazione. Chi è stato più illuminante e chi dobbiamo invidiare di più?
Robert: Per me parlare con John Foxx è stata l’emozione più grande, e passare del tempo con Chris e Cosey è stata un’esperienza surreale. Riguardo alla strumentazione, devo dire che quello che mi ha incuriosito di più è stato Jack Dangers con una marea di macchine insolite, specialmente l’ultra-raro EMS Synthi 100. Molta gente ha più roba di lui ma la sua collezione è davvero speciale.
Jason: Io non vedevo l’ora di incontrare due dei miei più grandi eroi: Vince Clarke e Daniel Miller. Lo studio di Vince Clarke è il più invidiabile di tutti perché ci sono molti synth classici, ma anche alcuni tra i più rari modulari in circolazione, poi è l’unico in cui ho trovato un Roland System 700, che occupa il primo posto tra i synth dei miei sogni.
Negli ultimi anni la Arturia, in partnership con la Moog, ha realizzato una versione digitale dello storico Moog V. L’azienda ha decantato l’accuratezza del software, degli oscillatori a bassa frequenza e della così detta tecnologia TAE. Che ne pensate?
Robert: Quel software è davvero impressionante, ma credo che questo tipo di cose non faccia che accrescere nelle persone la voglia di avere l’oggetto reale.
Jason: Colleziono synth dai primi anni Novanta e all’epoca non c’erano software disponibili, quindi ho sempre usato delle vere macchine. Quando ho scoperto i software non ne ho mai amato il suono né le interfacce, e quindi non ho mai sentito il bisogno di conoscerli meglio. Alla fine trovo tutta la faccenda parecchio noiosa. Non si offendano quelli a cui piace usarli, ma personalmente non sono interessato.
John Elliot di Spectrum Spools (ed ex-Emeralds) appare più volte nel documentario. Quali sono le label che preferite al momento? So che Jason ne ha una tutta sua…
Robert: La mia preferita è la Suction Records, perché c’è Solvent!
Jason: Innanzitutto fammi menzionare un paio di italiane: adoro le ristampe wave di Mannequin e Minimal Rome, che ha un catalogo di musica elettronica fantastico. Qualche anno fa ho anche realizzato un 12” con loro. A parte questo sono un grande fan di alcune etichette che fanno ristampe synth/wave come Genetic, di nuovo Minimal Wave e Dark Entries, e per le nuove uscite ne seguo diverse di weird techno come Opal Tapes, L.I.E.S., Lux Rec… Spectrum Spools è chiaramente tra le mie preferite. E sì, ho anche una mia label di musica elettronica, la Suction Records, che produce i dischi di Skanfrom, Celldod, Lowfish, June e molti altri.
Ultimamente in giro si fa un gran parlare del così detto accelerazionismo e musicisti come Holly Herndon hanno riportato l’attenzione sul bisogno di concepire la musica presente come “digitale”. Mi piacerebbe sapere il vostro punto di vista.
Robert: Credo che sia meglio usare la tecnologia digitale per fare cose che puoi fare solo in digitale, piuttosto che per emulare le macchine analogiche. Ad esempio, alcuni dei moduli più interessanti che ho usato sono digitali, ma possono essere controllati in analogico e interfacciarsi con apparecchiature analogiche.
Jason: Sono d’accordo con Robert al 100%.
Oggi c’è ancora parecchia gente che negli ambienti accademici fa ricerca sui synth analogici e a volte usa la strumentazione delle università per avere una palette più variegata e definita di suoni. Dal vostro punto di vista si può ancora parlare di vera ricerca in questo campo?
Robert: Penso che la strumentazione analogica sia diventata accessibile a così tanta gente che ormai non è più necessario andare all’università per poterla usare. Dal mio punto di vista, poi, molte delle università che si occupano di discipline artistiche sono più focalizzate sulla teoria che sulla pratica al giorno d’oggi.
Come avete scelto chi intervistare? Nel video ci sono musicisti e producer importanti, ma anche grandi assenti, come il giro cosmico e kraut tedesco, quello inglese di Spectrum/E.A.R. o pioniere come Laurie Spiegel, per citare qualche nome. So che il vostro intento non era, almeno originariamente, storico, ma in qualche modo gli artisti che ho nominato sembrano aver influenzato molto il movimento di cui parlate.
Robert: I soldi sono stati un fattore limitante, abbiamo cercato di intervistare più persone possibile in una determinata area geografica. Mi dispiace davvero di non aver potuto intervistare Laurie Spiegel, anche perché la ristampa di The Expanding Universe è una delle cose migliori che mi è capitato di ascoltare negli ultimi anni. Se avessi avuto un budget maggiore, mi sarei sicuramente dedicato di più alla scena progressive. Poi, come dici tu, non abbiamo mai pensato di fare un documentario storico, quell’aspetto è venuto fuori accidentalmente.
Jason: Fin dall’inizio abbiamo deciso di dedicarci maggiormente all’attuale scena dei synth modulari e quindi non abbiamo intervistato molti dei pionieri. Da una parte rimpiango di non aver inserito certe persone, ma penso anche che lo spirito del film promani proprio dal nostro intento di catturare un movimento tutto contemporaneo. Credo che se avessimo impostato le interviste da un punto di vista storico, il risultato sarebbe stato di gran lunga più noioso. Poi certo, la mia faziosità nel parlare con musicisti di cui sono fan ha giocato un ruolo importante! Ma ho anche cercato di inserire aree musicali lontane dai miei interessi, per avere una prospettiva a 360 gradi e avvicinare più persone.
Come vedete i synth analogici tra dieci anni?
Robert: Penso che la gente non discuterà più tanto sulla diatriba analogico vs digitale, sarà solo una questione di scelte estetiche. Ad ogni modo la possibilità che le componenti analogiche possano cessare di venire prodotte crea un enorme punto di domanda sul futuro dei synth analogici modulari. Però penso anche che l’interfaccia analogica, con l’uso di knob, switch e cavi per le patch, ha dimostrato di essere una buona idea e quindi di poter durare nel tempo.
Jason: La domanda somiglia molto a quella che veniva posta spesso negli anni Sessanta: “Come vedi la musica suonata con le chitarre tra dieci anni?”. La musica analogica non è un’idea nuova e ormai possiede un vocabolario completo, prosegue da anni e semplicemente continuerà ad andare avanti. Ci sarà gente che riproporrà sempre la stessa roba, ma alcuni riusciranno a produrre della musica nuova grazie alla loro personalità.
“I Dream of Wires” è stato proiettato pochi giorni fa a Berlino e lo scorso anno la hardcore edition è stata presentata al Club to Club festival di Torino. Pensate di tornare da queste parti anche con la nuova versione?
Robert: Sono davvero soddisfatto della data europea, la versione del film è un po’ diversa da quella proiettata lo scorso anno, abbiamo aggiunto un artista importante, Herb Deutsch, colui al quale Bob Moog commissionò lo sviluppo del suo synth modulare. Ci sono poi delle interviste più lunghe e altre novità che credo piaceranno al pubblico.
Jason: Se volete organizzare altre proiezioni in Italia fateci sapere, abbiamo anche dei sottotitoli italiani disponibili sul nostro sito e chiaramente nella versione dvd: [email protected].
^I Dream Of Wires: breve cronistoria dei sintetizzatori
Avviso: questa parte dell’articolo è tutta uno spoiler.
Se amate i synth e volete trascorrere un paio d’ore elettrizzati come bambini davanti a un banco dei gelati, questo è il documentario che fa per voi.
“I Dream of Wires” è una chiacchierata tra musicisti che puntella un riassunto scorrevole e ben architettato della storia dei suoni sintetici. Si parte dai grandi laboratori degli anni Cinquanta e dall’apertura dei primi studi di musica elettronica in Europa e Nord America, per raccontare due filosofie di pensiero: quella della East Coast, incarnata dai toni corposi e definiti del Moog, e quella della West Coast, che si rispecchia nelle sonorità ultraterrene del Buchla.
Est VS Ovest: Robert Moog & Don Buchla.
Siamo negli Stati Uniti ed è il 1957, fino a quel momento il Frankenstein sonoro più avanzato in circolazione era stato questo, ed è la cosa più poetica e meno fruibile che io abbia mai visto in tutta la mia vita. A est primeggiano la Columbia University e il suo Electronic Music Center, dove giganteggia l’RCA Mark II, il primo sintetizzatore di musica elettronica “completo” apparso sul pianeta.
Qualche anno dopo all’interno del campus si distingue un laureando in fisica, Robert Moog, che nel tempo libero realizza kit per costruire theremin. Il giovane ha un innato spirito imprenditoriale e ha appena fondato un’azienda tutta sua, la R.A. Moog CO. Il giorno più fortunato della sua vita è quello in cui incontra qualcuno più secchione di lui, il compositore Herbert Deutsch, con cui decide di inventare il primo oscillatore controllato in tensione (VCO) e un rack contenente i famosi filtri (VCF), che brevetterà di lì a poco. Il VCO e i VCF, insieme alla tastiera di Keith Emerson, diverranno i capisaldi della filosofia sintetica della East Coast.
Mentre alla Columbia si spremono le meningi per scrivere un pezzo di storia, a meno di tremila miglia la situazione è più rilassata. Tra una canna e l’altra si profetizza una rivoluzione sociale e culturale che investa anche l’università più figa del momento: Berkeley, dove ha sede il Mills College. Con uno iato temporale di più di cinquant’anni, vediamo gironzolare per il campus William Maginnis e Ramon Sender, tra i membri fondatori del San Francisco Tape Music Center. I due, che sembrano appena usciti da un Bar mitzvah, vanno a salutare un amico che non vedono da quarant’anni, il famigerato Buchla 100, il primo di una fortunata serie.
I ricordi corrono veloci al 1963, quando Don Buchla, un ingegnere della Nasa la cui fantasia ha ben pochi limiti, irrompeva nel panorama musicale di San Francisco, modificandone i gusti e ridefinendone le coordinate culturali. In un’epoca in cui i transistor erano già piccoli ed economici, nasceva un sintetizzatore in grado inglobare svariati moduli in un design compatto ed esteticamente attraente. E chi poteva decantarne i pregi se non Morton Subotnik, che di lì a breve se ne avvarrà per comporre Silver Apples Of The Moon? Una carrellata sui primi modelli, di cui alcuni scritti a mano, si sofferma su un esemplare di colore rosso, che può essere leccato e regalare viaggi lisergici all’adepto di turno.
Il nemico alle porte: la nascita del Synclavier e della DX-7.
La pacchia dura diversi anni e Moog e Buchla si assicurano una discreta fama nei rispettivi luoghi d’origine, fino alla comparsa di uno strano marchingegno, piuttosto ingombrante e minaccioso, al Darthmouth College del Massachussets. Si chiama Synclavier ed è il primo strumento a sintesi digitale capace di campionare e reinterpretare abbastanza fedelmente suoni reali. C’è chi preannuncia l’inizio della fine e siamo appena nel 1977.
Senza perderci in coccodrilli e necrologi, scivoliamo intrepidi al 1983, anno in cui viene commercializzata la DX-7, la prima macchina digitale con tecnologia FM, che introduce un’ampia quantità di variabili e possiede una banca di suoni nativa. Costruita in Giappone dalla Yamaha, la DX-7 è piuttosto facile da trasportare (se non pesate 40 kg come me) e commercialmente appetibile. Si inaugura un decennio, gli anni Ottanta, in cui protagonisti saranno i synth digitali, economici (sì, ok, è relativo) e versatili. È anche l’epoca in cui molti vendono o abbandonano in soffitta i dispositivi analogici, cosa di cui si pentiranno amaramente in un futuro non troppo lontano.
Nineties vs Eighties
In tempi e luoghi insospettabili, precisamente con la nascita della musica dance alla fine degli anni Ottanta, producer e dj iniziano a capire che il digitale “suona meno” e che per pompare la musica nei locali non c’è niente di meglio che un bel synth analogico. Il Moog e i suoi amici iniziano a risalire la china, mentre nasce la prima generazione di geek che rivendicano la supremazia del modulare. Analogico diviene sinonimo di “suggestiva imperfezione” e “piacevole imprevedibilità”, là dove il digitale è piatto è noioso.
Panoramiche degli invidiabili studi di Jack Dangers del Meat Beat Manifesto e Vince Clarke (Depeche Mode, Yazoo, Erasure) ci mostrano come il fenomeno stia diventando endemico, almeno tra gli addetti ai lavori, e procurano gastriti a tutti gli altri.
L’analogico si appresta a entrare in una nuova golden age, dunque, ma non manca qualche perplessità: c’è chi come Flood ne sottolinea la scarsa affidabilità, gli alti costi di manutenzione e riparazione, nonché le difficoltà nel reperire terze parti. Sembra insomma che i vecchi synth siano destinati, nostro malgrado, all’estinzione.
Qualcosa però sta per mettersi in moto. A metà degli anni Novanta un canadese, Mr. Bruce Duncan, sorprende tutti lanciando Modcan, una nuova ed elegante linea di moduli serigrafata artigianalmente. Segue a ruota MOTM di Paul Schreiber, ispirato al Moog Modular.
Se queste situazioni si rivelano da subito interessanti, rimangono relegate ad ambienti più o meno underground. Le nuove macchine hanno un suono caldo e familiare e coronano il sogno di tanti ex bambini cresciuti negli anni Sessanta e Settanta, ma sono ancora troppo grandi per essere portate in tour e troppo costose per essere accessibili all’indigente musicista medio.
I primi Duemila e il Computer Studio.
Il colpo più duro ai sintetizzatori analogici viene però inferto nei primi anni Duemila dalla pandemia del Computer Studio. In pochi le sopravviveranno e software come Logic, Reason e Pro Tools sostituiranno gli studi reali, ormai ridotti a camerette di due metri per quattro.
La festa digitale in quel periodo sembra raggiungere il suo apice, ma dura poco.
Molti musicisti e producer, benché a corto di soldi, iniziano a sentire nuovamente la nostalgia dei caldi convertitori analogici, nonché l’irrefrenabile desiderio di girare manopole che non siano i knob costruiti in Cina dei controller della M-Audio. Fortuna loro qualcuno sta lavorando da tempo a un nuovo sintetizzatore di fascia bassa.
L’uomo in questione, che molti di noi benedicono ogni mattina, vive a Grafelfing, in Germania. Il suo nome è Dieter Doepfer ed è lui a costruire il primo sistema modulare A-100, ribattezzato poi Eurorack. Scoraggiato da tutti a metà degli anni Novanta, Doepfer ha atteso pazientemente il suo momento e, quando il revival è esploso, si è conquistato una grossa fetta di mercato, grazie alla qualità delle macchine e ai prezzi imbattibili.
Complice il culto del vintage, imperante in ogni ambito commerciale, la nicchia dei primi anni Dieci è lentamente confluita nel mainstream e i video del NAAM Show, in California, lo documentano ampiamente. Il Rinascimento della modularità è oggi al suo culmine, lo si percepisce anche dalle parole di gente come Keith Fullerton Withman, Legowelt, Robert A.A. Lowe, Harvestman, e se lo dicono loro c’è da fidarsi.
L’ultima frontiera sembra essere quella dei sintetizzatori personalizzati e di personaggi come Andreas Schneider che con la sua Schneiders Buero media tra il pubblico e piccoli makers.
Io nel frattempo mi sono convinta a comprare un modulo Eurorack, dopo aver passato l’ultimo anno a decidere se acquistare un Moog o un Buchla e fingendo di essere indecisa solo perché in entrambi i casi costava troppo. Il mio portafogli ringrazia Rob, Jason e Mr. Doepfer.
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