I Fasti e linguaggi sacri di Francesco Danieli
18 aprile 2014 di Paolo Marzano
E le “Note antiquarie” (come ipotesi di ricerca)
“La storia dell’arte non può che esercitarsi sul temporalmente impuro, modificando lo schema epistemico della storia e riconfigurando presente e passato. L’immagine, ha spesso, più memoria e più avvenire di colui che la guarda“
Georges Didi-Huberman, in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini – Bollati Boringhieri 2007
di Paolo Marzano
Francesco Danieli, nel suo ultimo lavoro Fasti e linguaggi sacri, racconta con parole semplici una delle caratteristiche fondamentali e sempre più emergenti, della Terra d’Otranto. Adotta una dichiarata, trasparente, limpida, quindi, intelligente e come sempre, eloquente trattazione, capace di utilizzare la ‘parola’, connettendola multidisciplinarmente al senso dell’immagine. Un metodo non certo difficile da comprendere, magari un po’ più complesso in quanto estremamente eterogeneo. Analizza le figure o gruppi di esse indagandone le storie, compresi i loro simbolici e innumerevoli intrecci, i diversi attributi, le posture, la gestualità specialmente quelle narrazioni, considerate, nel suo ‘pratico’ lavoro, riferite al periodo della controriforma. Ancora più interessante risulta essere la lettura a livelli o a frammenti, secondo un’interpretazione critica che entra dentro l’ordine delle ‘cose’. Certo, l’approccio solo visivo può essere soggetto ad una forma di ‘iperestesia’, ma la completezza si raggiunge unendo ‘funzioni’ a ‘forme’. L’approccio iconografico quindi non può fare a meno della fondamentale ‘spiegazione’ iconologica, per tentare sempre più di comprendere uno dei principi fondamentali di traduzione di questo tipo di opere.
In effetti, vedremo come tutto viene creato per investire e coinvolgere l’osservatore da uno stato emozionale, rendendolo partecipe, per la maggior parte delle volte, anche inconsapevole, dell’incantata scena teatrale, allestita intorno ai dipinti, alle sculture o a quegli altari incredibilmente sfolgoranti per la loro densa e articolata doratura. Ma occorreva il transitus, cioè quella predisposizione ad osservare un’immagine e mentalmente ri-conoscerne, con affetto e venerazione, la scena dilatata fino al contesto narrativo, richiamato da essa. Proprio questo processo, ha interessato, chi vi scrive, e il materiale pubblicato da Francesco Danieli, risulta un interessante approccio a questioni di metodo e di verifica pratica, compito audace dello storico traduttore.
L’antropologia ha trasmesso alla storia non poche realtà tra le quali, una delle più importanti riguarda il ‘sacro’ che, per essere condiviso, va rivestito di ‘materia’. Naturalmente deve essere una ‘materia’ notevole, esposta ed evidenziata nella sua forma migliore. Bene, in questi due righi, c’è la premessa al racconto che andiamo a leggere.
Quasi come uno schermo contemporaneo retroilluminato, ogni retablo-altare della controriforma, presentava la sua interfaccia al fedele ‘utente’ che, posando lo sguardo iniziava a rincorrere fatti, azioni, simbologie e significati. Oggi diremmo che sceglieva l’applicazione, decidendo quale programma o ‘strada’ e-vocativa, percorrere. In questo modo le infinite e fantastiche scene, come ‘icone’ di collegamento, aprivano a percorsi meditativi tutti diversi (era l’immaginazione e il bagaglio culturale individuale che funzionava, correlando le parole/figurate). Esse stesse, in effetti, lentamente, confluivano indistintamente a narrare la via più qualificante e allo stesso tempo, pienamente ‘moralizzante’ costruendo nel tempo una composizione mentale; un’esperienza visiva diventata didatticamente ‘concetto’. Il procedimento prevedeva una semplice consecutio di lettura; si partiva dai livelli orizzontali più bassi si risaliva. Dai demoni che trattengono le figure immerse nel peccato, alle allegorie delle virtù, dagli episodi evangelici, ai vari santi, fino alle immagini angeliche, si apriva la strada per la splendente cimasa (il vertice era l’arrivo del percorso e del premio finale per l’anima). Quindi, sculture e motivi decorativi, partecipavano attivamente come reali imagines agentes accompagnando il viaggio ‘memorativo’. Sacre scritture in nuce, sintesi e commenti scolpiti e riassunti in ‘gesti’ pietrificati, perfettamente funzionati se messi in relazione gli uni con gli altri. Altari come quinte labirintiche, guidavano lo sguardo, lo educavano al cammino, nel tempo di un ‘passo‘ e di un ‘ri-passo‘ degli accadimenti, ecco allora realizzarsi il termine del “ruminar la parola di Dio“. La lettura e la rilettura, conduceva alla ri ‘meditazione’, dei misteri, il processo (o esercizio spirituale, in quanto metteva in sequenza riportando ‘alla luce’, parole, azioni, miracoli e personaggi sacri) corrispondente, realizzava la ruminatio applicata. Gli altari come delle vere e proprie storie sospese, diventavano degli ‘attrattori’ come schermi ‘accesi’, funzionanti esercizi alla meditazione, ‘contenevano’ e indicavano le qualità utili alla purificazione dell’anima (per questo era necessaria la sofisticata apparatura e doratura) e potevano, (leggendole e rileggendole) irradiare, simili a ‘stufe’, calore devozionale misto al fervore sacrale che, solo quell’equilibrio di effetti luminosi materici, nel brulichìo coloristico cangiante delle policromie dipinte, secondo le tonalità riconosciute e previste dalle regole, realizzavano.
La moltiplicazione di queste ‘mense’, a seconda delle forme sempre nuove degli apparati scultorei dei retabli, tra colonnati, paraste, trabeazioni aberrate, santi posti in serie e nicchie conchigliate, presentavano, a volte delle pitture a volte delle tombe o dei simboli o ancora dei contenitori di preziose reliquie, che diventavano il punto principale di prospettive mirabolanti. Fitte foreste di colonne tortili iperdecorate tra le quali si consumavano preghiere miste ad incenso, in un generale, dinamico, flusso lento ascensionale.
Le reliquie, per esempio, che si proiettavano, su un territorio e nell’intorno della stessa chiesa, per translatio o dismembratio, delineavano spazi su spazi, selezionando aree riservate all’adorazione legata al sacro, ed a luoghi di venerazione, diversi da quelli della sola ammirazione. Conosciamo bene, infatti, che non tutta l’area del tempio aveva questa destinazione ‘sacra’, (dai documenti, monaci o vescovi, erano contrariati a certi usi da effetto ‘collaterale’, che ne faceva parte della popolazione, purtroppo comune, dal nord Europa… fino a Nardò). Perciò lo spazio ‘sacro’ era circoscritto da opportuni ‘segnalatori’ di confine (archi di trionfo tra navata e presbiterio, balaustre, cancelli, gradini, coro rialzato e chiuso, posto dietro l’altare o in qualche zona del transetto, ecc…). Necessaria se non obbligata, dunque, la procedura di Francesco Danieli nell’approfondire con indagini orizzontali, utili a comprendere la cultura e soprattutto la non-cultura di quel tempo.
Siamo sempre più convinti che, di questa terra, ancora, si dovranno spiegare tante cose, riaggiornando diverse ‘statiche’ convinzioni. D’altronde occorre una certa responsabilità nel dare una definizione “all’indefinibile” fenomeno, barocco. Alibi talvolta abusato, utile più a ‘non dire’ che a scoprire. Definizione, perlopiù premeditatamente equivoca e opacizzante, quella di barocco, che paradossalmente, ha poi preservato tesori di ‘senso’ tenendoli ancora nascosti, perché altre sensibilità potessero tentare di tradurli e leggerli, con nuovi e mirati strumenti di traduzione. Ed ora i codici sono sotto l’attenzione di chi è preparato a questo. L’esempio eclatante, per esprime al meglio questo concetto, è il caso della ‘glassa’ settecentesca sanfeliciana che avviluppava, ricoprendo sorprendentemente, le bellissime strutture e gli affreschi dell’antichissima e preziosissima cattedrale di Nardò. Proprio, come considero, quello che è successo, con il ‘puntello’ dell’equivoco termine “barocco” nella nostra zona; si sono ricoperte realtà che ora vengono finalmente sfoderate e presentate alla loro natura prettamente ‘comunicante’, ci tengo ad aggiungere, ‘moralizzante’ e non banalmente calligrafica o solo decorativa.
Si scoprono linguaggi densi, racconti fitti. “Non è tutto barocco, dunque, quello che brulica nel frastuono dei centri del Salento”, basta avvicinarsi con l’occhio della mente (quello alato albertiano) seguendo il fantastico e surreale gioco del micro/macro, utilizzato molto più di quanto certa storia locale può continuare a limitare, e iniziano a comporsi racconti tutti collaboranti, all’inattesa lettura di un’opera aperta, che compare proprio sotto i nostri occhi. Ecco dunque il “Barocco” come andrebbe inteso. Non sovra-interpretandolo, ma neanche rimanendolo a guardarlo ‘iconograficamente’. Francesco Danieli, col suo lavoro, ritengo, abbia contribuito, e auspico che contribuisca ancora attivamente, alla formazione di una metodologia alternativa di ricerca e soprattutto all’esercizio di questa lettura, utile a consolidare quella generazione sempre più consapevole nel necessario viaggio “nelle” e “per” le opere d’arte. L’iconologia lega l’iconografia al suo servizio di contenitore di ‘senso’ originale e inedito, culturale, educativo, edificante.
Sulla base di quella osservazione critica che, come metodo, ho inteso fin’ora, chiamare appunto della filologia antiquaria, vengono elencate alla luce di informazioni, concrete immagini e descrizioni, evidentemente dichiarate, rielaborate, scolpite e riferite, a precisi codici ‘antiqui’. Anche una semplice foglia di trifoglio incredibilmente ‘invisibile’ (per esempio nel caso dell’altare del Purgatorio di S. Patrizio, nella Cattedrale a Nardò) poteva probabilmente essere indicativa, per quella lettura diversa, inserita in una storia raccontata con la pietra, ma non è stata vista perchè ancora non era chiara la sua simbologia strettamente evangelizzante, adottata dal vescovo irlandese. Quella foglia però era lì, e i due angeli la mostravano diligentemente, appesa alla loro cintola, nelle due versioni.
Le pagine da ri-sfogliare dunque sono ancora tante. Quando, noi abitanti della Terra d’Otranto, impareremo a pronunciare, e a non avere timore di osservare tutte le parole/figurate, del prezioso ornatus che abbiamo intorno, comprenderemo meglio il significato di estensioni emozionali come “fervore devozionale”, “pietà”, “compassione”, “contemplazione”, “meditazione”, “coinvolgimento estetico”, “passione estatica”, “intima contrizione”, “gestualità caritatevole”, “via della sofferenza”, “uomo dei dolori”, intendendole come attributi insostituibili e strumenti di “metodiche memorative” condensate in vero e proprio pathos, sintesi di passione, concitazione, movimento dinamico interiore che si rivelava anche nei gesti esteriori con una dichiarata semeiotica capace di innescare la scintilla della fede, in un ‘ambiente saturo di devozione’ infiammando l’anima. Ricordo come, a questo punto, in particolar modo nel meridione, dell’Italia della Controriforma, l’ornatus delle figurae della retorica, trova nel ‘pathos‘ nuovo spazio espressivo, quindi, parole e pensiero tramutati in immagini ‘sensazionali’ scolpite, e che adornano la scena della vita, come estensioni di, un solo ‘senso’, quello comune.
Gestualità e patetica delle sculture nelle diverse esplicitazioni di dolore. Guido Mazzoni Compianto sul Cristo morto, 1476-1477 Chiesa Santa Maria degli Angeli – Busseto (PR); Compianto del 1477-79, Modena, chiesa di San Giovanni Battista; Antonio Begarelli Compianto su Cristo morto 524 – 26, particolare. Modena, chiesa di Sant’Agostino; Niccolò dell’Arca Compianto sul Cristo morto. Chiesa di S. M. della vita, Bologna; Compianto su Cristo morto, 1494 terracotta, Chiesa Sant’Antonio di Castello, Venezia, ca. 1485-89 (in deposito ai musei civici di Padova)
Espressioni verificate, fin dai tempi antichissimi e allo stesso tempo, gestualità elementari, percettivamente ed empaticamente assimilabili. Dunque, figure concorrenti e spietate gestualità che si facevano largo nella sensibilità dell’orante, a suon di volti dolorosi, ferite, spade nel cuore, dèi adirati e santi richiamati dagli ordini monastici o dalle confraternite ad intercedere, con i segni dell’azione diretti al corpo come atto supremo di comunicazione/immedesimazione e pietà. E allora, tagli, incisioni nella carne, spine, lance, chiodi, arti trafitti, rivoli sanguinolenti, deposizioni dopo il martirio, sudari e panneggi, tombe scure, teste reclinate dallo spasmo del dolore, occhi di vetro socchiusi ma luccicanti, madri angosciate, visi sempre oranti o adoranti rivolti al cielo, sopracciglia spioventi e lineamenti contratti, sofferenti, gesti tenuti a stento nel silenzio, allora apriremo una nuova fase che dall’arma bianca della ‘patetica’, muove verso l’esaltazione emozionale della collettività. E’ il caso di aggiungere che, a volte, là dove gli indumenti non si proiettavano nello spazio con mille pieghe comunicando il ‘moto dell’anima’ allora era il volto o la postura a ‘piegarsi’ collaborando a quella ‘parola’, non detta, ma sempre percepita.
Anacronismi di gesti e posture nell’antichità: da sinistra - Lamentazioni durante la prothesis, lekythos attica; Sarcofago romano con scene della vita di Achille, 160 d.C. ca. Ostia, Museo Archeologico Ostiense; Cratere a calice a figure rosse del Pittore di Dolone, lato B : giudizio di Paride (particolare).Le due figure a destra - Una delle statue dei Dioscuri (Castore e Polluce) in piazza del Quirinale provenienti dalle terme di Costantino; Musei Capitolini. Particolare del sarcofago con la caccia calidonia di cui facevano parte anche i Dioscuri II – III sec.
Fino all’incendio purificatore e allo scoppio esorcizzante delle architetture effimere che nelle piazze, scaricavano la tensione comune, alimentata da continui cortei processionali assorbiti dalle masse, fino al limite sopportabile. Le città, si sono trasformate proprio per questa funzione comunitaria. Una terra, la nostra, scandita da cicli cultuali pedagogicamente scelti, adattati ai cicli delle stagioni, ai colori del vestiario del celebrante e all’addobbo dell’arredo sacro che mutava per meglio memorizzare il tempo liturgico ed imprimerlo continuamente, senza sosta. L’eccesso di immagini e di scene, doveva prendere lo spazio dell’assenza di riferimenti o peggio dell’ozio intellettuale. Ceri, candelabri, paliotti o drappi che coprivano croci o cadevano via, dove la ‘tristezza’, la ‘penitenza’ e poi la ‘gioia’ scandivano l’organizzazione del tempo e del pensiero comune. E si concludeva nell’esaltazione dell’animo, purificato e rinnovato, dalla vittoria e dalla rinascita, sempre possibile, dopo la morte. Una costruzione, per fasi, di una ierofania.
L’autunno passa all’inverno il testimone che rallegrandosi cede il passo all’estate, ed è di nuovo la luce.
C’è di tutto in quest’ambito emozionale e le divinità antiche sempre presenti in questi territori, da De Martino a Warburg passando per Macchioro, di cui l’etnoantropologo era genero, sono sempre ritornate sul luogo dell’evento che trascende la realtà sensibile. Ma ancora vanno approfondite tante tematiche con indagini capaci. Diventa un esercizio intellettuale, quello di avvicinarsi all’opera o ad un suo chiarificatore particolare. E ritengo che, proprio in questi casi, maggiormente si verifichi sempre più l’inconsistenza della definizione limitante di ‘arti minori’. Un profondo e disciplinato approccio filologico – antiquario, ritengo possa introdurre un ambito dialettico, agevolato, ancora una volta dalla frase, attribuita a Warburg: “Il buon Dio si trova nel dettaglio”, e non tralasciando mai l’essenziale interdisciplinarietà dell’opera d’arte; teologia, letteratura, astrologia, scienza delle religioni, tecnica e progettazione di apparati. Una comparazione complessa che contiene e conferma l’azione dell’oggetto che assurge a sintesi quindi simbolo di un ‘tempo storico’.
Immagine della patetica del viso del Gruppo del Laocoonte. E’ probabile che sia una copia marmorea eseguita tra I secolo a.C. e I secolo d.C., di un originale bronzeo del 150 a.C., h 242 cm. L’espressione è parte fondamentale dell’opera per comunicare lo stato di difficoltà dei tre uomini nelle spire del serpente. Ma tante altre sono le espressioni simili che già al tempo collaboravano all’emozione generale della scultura
Diciamo che ancora siamo agli inizi di una nuova fase, ed è dunque fisiologico che la nuova frontiera, sia ora caratterizzata dalla riproposizione e ri-pubblicazione delle stesse opere, ma guardate e percepite però, diversamente, in quanto capaci di ‘parlare’ ancora con voci ‘dotte’, e non solo ‘barocche’. Altrimenti, come potremmo comprendere la fondamentale realtà della ‘fissazione delle immagini in rilievo‘ per la ‘composizione del luogo‘ compresi i suoi ‘educativi dettagli’, che Aristotele suggeriva per ben memorizzare, e per ampliare l’immaginazione individuale, o delle tante pubblicazioni sulla meditazione memorativa (tra cui il Modus meditandi et orandi di Louis Barbo) nel periodo ’300-’400. Un degli esempi importanti e allo stesso tempo ‘edificanti’, è quello delle diverse opere di pittura che rappresentano S. Francesco che riceve le stimmate. Infatti, ci si può fermare alla sola proiezione delle ferite del Cristo che passano al santo e finirla qui, ma volendo entrare nell’opera, con tutta l’attenzione possibile, allora, bisognerebbe penetrare i significati ‘addotti’, di cui quella strana figura che avvolge la croce, è solo la premessa. Possiamo per esempio chiederci perchè il Cristo, con la croce appare sempre avvolto e avviluppato da ali?
Con lo studio ci avvicineremmo (ognuno cerchi a suo modo) alla teoria del ‘cherubino‘ con le sei ali spiegate e un numero preciso di piume. Un metodo memorativo, semplice e raffinato. Ognuna delle piume, aveva una scritta, che faceva memorizzare il tema delle omelie che partivano nei periodi di quaresima e passione, ed erano utilizzate dai predicatori ‘per’ e ‘dai’, fedeli, per evocare ‘quel tempo’ di lutto e angoscia, privazione e preghiera, facente parte dell’analisi pubblica e privata, di tutti i misteri della Pasqua. Dunque, il Cristo-cherubino era un metodo e un simbolo della pratica memorativa a favore della devozione, utile a trasmettere e far vivere la sofferenza del Cristo. Quindi quell’opera o tutte quelle che vennero riprodotte con questa tematica, agevolavano, aprivano alla conoscenza del mistero della Passione, supportata con la meditazione, fino all’immedesimazione dell’evento, tanto da far ‘sentire e possedere le stesse ferite’ della croce.
E, sulla base di questo concetto, come potremmo infatti mai discutere, per esempio, della “Discendenza di Sant’Anna” e quindi, ampliare il discorso fino a “l’Albero di Jesse”, nel caso particolare della guglia di Nardò, se ancora si insiste ad individuare, errando, la presenza di un santo ‘fuori luogo’ come San Domenico, tra le statue attorno alla sua base? E magari, così facendo, non si lascia spazio all’interpretazione fondamentale sulla traccia di un tema importante come ‘la grande parentela’ di S. Anna e del concetto della discendenza spirituale, (cognatio spiritualis) alternativa, addotta da quel particolare schema familiare della Vergine (S. Anna, S. Gioacchino, S. Giovanni Battista, S. Giuseppe). E perchè si è scelto, iconologicamente, di aggiungere proprio quella serie di figure nel monumento a Nardò? E soprattutto, di quale completezza, è il ‘sunto’ quell’originale apparatura? Forse pensandoci bene, era l’idea della sequenza “discendenza-famiglia-alto lignaggio-santità” (non dimentichiamo che in passato fino al XII secolo, i santi canonizzati discendeva da famiglie di principi e reali), che i sempre ‘supponenti’ dominatori dell’antica Neretum, volevano, comunque, intendere e far intendere, sicuramente sino ad epoche più recenti. Possibile.
Particolari antiquari che ‘apparano’ la guglia
Ciò è dimostrato maggiormente dallo “IUSTA PETENTI” della scritta latina, alla base della cimasa del Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona a Nardò, nella chiesa di S. Antonio da Padova. In questo caso ci si chiede di quale possibile “IMAGO PIETATIS” o di quale gruppo di figure (ora mancante) era completato il coronamento del Mausoleo. Lo spazio definito dalle due nicchie conchigliate, al di sopra dell’apparato ‘fantastico’, concede delle ipotesi di lettura. Il prezioso monumento, infatti, è stato da me interpretato come una possibile ‘macchina’ densa e complessa, impostata sullo schema dei “Monti della Pietà”, scolpito in modo pregevole a scopo ‘commemorativo’ e, in questo caso, unico e originale, anche ‘celebrativo’ (virtù cardinali su basamenti con fontane della vita, guerrieri con spallacci leonini su grifi come tanti carri di guerrieri di antiche storie allegorie europee, panoplie, cartigli, grifagne e tutto l’abecedario della “filologia antiquaria”, che già conosciamo come diffuso modus operandi utilizzato al tempo della sua costruzione, 1545). Ma lo spazio profondo, previsto sulla cimasa, potrebbe giustificare un gruppo di figure. Molte composizioni di gruppi ‘compassionevoli’ o ‘caritatevoli’ scatenanti empaticamente l’adoptio, erano diffuse in tutta Europa, partecipavano ad evocare quella pietà, forse posta, a titolo dell’eccellente monumento (non conosciamo se la posizione della scritta sia stata sempre quella, di certo molti particolari sono stati perduti o manomessi, spostati). Magari come scena simbolo, a cui dedicare la propria vita e le proprie virtù.
Intorno al Mausoleo dei Duchi Acquaviva di Nardò
I due guerrieri sostengono dunque lo scrigno, proprio, delle ‘virtù’ o comunque, dal contenuto simbolico delle preziosità, possedute come offerta, a conferma di una vita vissuta con fierezza e consegnata come sostegno al regno terreno, ma anche e soprattutto come garanzia di quello celeste; la propria dote all’Eterno. E allora sia dato “il giusto a chi lo merita“. D’altronde l’antica vicinanza, all’ordine francescano, degli Acquaviva d’Aragona, (nell’insieme il monumento, dall’horror vacui evidente, ci pone di fronte ad una possibile lettura glittica dell’apparato, anche capace di un’eloquenza da codice miniato, ma è più evidente, se lo interpretassimo e immaginassimo colorato, la composizione ‘fitta’ e ‘densa’ derivata dalla pittura fiamminga) diventa motivo del prezioso dono, come sintesi per le vittorie in battaglia, in difesa della fede e la conoscenza delle arti, celebrando la grandezza di una delle famiglie più importanti dell’Impero. Dunque, deduco che nel dispositivo dello “IUSTA PETENTI”, si trova un buon meccanismo simbolico, cioè consegnare la propria vita arricchita di virtù per avere in cambio “tanto quanto viene offerto”. Ineccepibile messaggio del preziosissimo Mausoleo di Nardò, eredità morale e simbolo etico per regnanti di quella caratura.
La scritta in cima al Mausoleo dei Duchi Acquaviva d’Aragona di Nardò del 1545 cita lo “IUSTA PETENTI”
A questo punto, senza neanche iniziare iconograficamente e poi iconologicamente, a leggere l’opera, cosa vorrebbe dire, l’affermazione comune e riconosciuta, che il Mausoleo è un’opera “pre-barocca”? Forse la presenza di file di astragali, capitelli, colonne, gole, scozie, le serie di baccellature contenenti listelli, pendagli, ovuli, tralci e nastri con scritte intorno alle colonne, cartigli, virtù, ecc…, rende la generalità dell’opera, barocca? Magari dimenticando la foresta originaria fatta da alberi sacri inghirlandati. O, forse barocco, si intende uno stato concettuale di iniziale frastuono, che precede l’analisi dei dettagli ‘antiquari’? Alla luce delle riflessioni suddette e dei messaggi letti ed intepetati, con i loro riferimenti a documenti esistenti, la definizione di barocco, non aggiungerebbe assolutamente nulla alla pregevole qualità dell’opera che non ha pari nel meridione d’Italia, per il controllo delle proporzioni anatomiche della statuaria e il bagaglio di riferimenti ‘antiqui’, come compendio culturale europeo, del 1545 a Nardò.
E ancora, è solo per abbellire la facciata del Sedile, a Nardò, sempre rimanendo in piazza Salandra, che viene aggiunto quel fastigio con San Gregorio Armeno, fra i santi compatroni San Michele e Sant’ Antonio da Padova, o forse i santi (quei santi), collocati al momento giusto e nel posto giusto, calmarono le folle (intercedono nel vero senso della parola) per i soprusi, all’ indomani dell’ eccidio del Guercio delle Puglie, nei confronti di cittadini e sacerdoti, appoggiato dal, pur influente, Granafei vicario del lontano (troppo lontano) Chigi?
Oppure, se il Di Furia comprova la presenza della guglia, già costruita nel 1749, e sappiamo che nel 1743 il terremoto a Nardò, sconquassò gran parte degli edifici di culto, sono davvero bastati solo 6 anni, pur nelle difficoltà post-terremoto, di una città con forti carenze strategiche, per arrivare ad una forma stilisticamente, così matura, colta e perfettamente elaborata che si impone nello spazio urbano di piazza Salandra?
Una facciata antiquaria, a monito di una Chiesa da riconsolidare
O forse, come di solito il buon senso vuole, ci si rifece ad esperti che già controllavano bene il soggetto ‘piazza’, apparandolo con l’oggetto antiquario e quindi sacro? Proprio per questo ritengo non sia stata la sperimentale se non acerba, intuizione del segno, magari brillante, del Sanfelice, ma invece l’analisi controllata già avvenuta, diventata da tempo, pratica concreta del Fanzago (ricordo che Fanzago intuì la bravura del giovanissimo Solimena e si fece garante del diciottenne artista, presso il Gesù Nuovo, di cui, poi, Ferdinando Sanfelice fu, allievo). Fanzago fu venerato maestro, è dunque, al suo lavoro, che va attribuita (riferita), ritengo, la complessa composizione dell’apparato strutturale e decorativo della guglia di Nardò, proprio per il ricco apporto di assonanze antiquarie relative alla colta serie di particolari di arredi sacri, (già descritta e documentata), comuni anche alle macchine da festa delle architetture effimere. Sarebbe interessante (moralizzante) anche ‘sbirciare’, a questo proposito, il sarcofago bacchico tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., che si trova a Parigi al Museo del Louvre, dove alcune ninfe, decorano un candelabro; per comprendere l’antichità, l’antiquaria e l’anacronismo delle immagini e il ritorno di forme, tutte ben chiare per il loro utilizzo nel ‘rituale’.
Esistono tutto un genere di statue di santi, vescovi, suore o di rappresentanti di ordini monastici, con una delle gambe alzate nell’atto però di poggiarla simbolicamente (non di calpestare). Un mezzo di certo importante per comunicare quale attributi la chiesa considerava non qualificanti ai fini della crescita dell’anima. Diverse le possibilità della loro particolare postura; con il piede su libri (considerati eretici), o su teste (demoni o di nemici della fede), o solo come posizione indicativa delle statue, dall’equilibrio anatomico contrapposto, che nell’insieme generale e, simmetricamente collocate, magari a livelli diversi dei retabli-altari, componevano visivamente, sviluppi sinusoidali di generatrici geometriche ascensionali. Le industrie artigianali per la creazione di queste figure, sfornavano molteplici apparati e tantissime statue, eseguendo poche e semplici direttive, l’eccitazione scenografica di città/templi, evidentemente “convincenti” e perlopiù “eloquenti”.
In alto a sinistra S. Michele Arcangelo nella classica usuale postura e con il piede poggiato su Satana. Al centro Francesco di Sales (1567 – 1622). In basso il particolare del piede di S. Francesco di Sales, poggiato sui libri eretici. Accanto S.Francesco Saverio (1506 – 1552) col piede poggiato sui nemici delle fede cristiana. Poi S. Raffaele o l’angelo custode col dito che indica l’unico insegnamento e fa da guida al bambino e il particolare del piede stavolta su una normale pietra. Per l’analisi dell’intero altare maggiore nella chiesa del Crocifisso di Galatone (Le) vedere il lavoro di Francesco Danieli
Le forze della terra e della natura, ancora in lotta sulle facciate controriformate, concorrono per ‘possedere’ e conquistare spazio. Procedono a livelli secondo uno schema ‘moralizzante’. Il collegamento che ritengo non azzardato, dopo questa trattazione, è riferito allo scopo ‘memorativo’ ed ‘edificante’ delle carte per eccellenza; quelle dei Tarocchi del Mantegna. L’enigmatico gioco, per il quale erano state progettate, forse era attinente ad una costruzione gerarchica che prevedeva, anche in quel caso, le figure della terra che tendono ad innalzarsi secondo principi etici e morali. Grazie a cinquanta incisioni divise in cinque gruppi si poteva costruire questo complesso sistema di relazioni tra componenti diverse, tute influenti, nel corso della vita di un uomo. Il primo comprende le dieci condizioni umane: il mendicante, il servitore, l’artigiano, il mercante, il gentiluomo, il cavaliere, il doge, il re, l’imperatore e il papa. Il secondo rappresenta Apollo e le Nove Muse. Il terzo comprende le dieci scienze, ovvero le sette Arti Liberali insieme all’Astrologia, alla Filosofia e alla Teologia. Il quarto gruppo comprende i tre principi cosmici, cioè l’Iliaco genio della luce, Cronico genio del tempo e Cosmico genio del mondo, e le sette virtù. Il quinto ed ultimo, con i dieci cieli, ovvero i sette pianeti, il cielo delle stelle fisse, il Primo Mobile e la Prima Causa che risiede nell’Empireo. Le carte, si racconta, allietarono l’intelletto, che solo col gioco si edifica, dei momenti liberi del papa Pio II, del cardinale Bessarione e di Niccolò Cusano nelle pause tra le sedute del Concilio di Mantova, tenutosi tra il giugno 1459 e il gennaio successivo.
Sculture di sante suore agostiniane. Da notare l’evidente cintura in cuoio, attributo dell’abito dell’ordine degli eremitani, di S. Agostino d’Ippona nella chiesa dell’Incoronata di Nardò. Si auspica una loro migliore ‘collocazione’ ai fini storico-devozionali
Anche il gioco delle carte dunque era un metodo di divulgazione, il mezzo (culturale-memorativo) più conosciuto in quel periodo, dalle grandi famiglie e anche dal popolo. Un buon vettore di comunicazione e di moltiplicazione delle simbologie, delle arti, delle virtù o delle allegorie come esempi edificanti, e aggiungo, proprio come lo sono state le facciate delle chiese controriformate. Questo per confermare l’importanza dell’antiquaria e lo studio di quel linguaggio prodotto e creato dalla diffusa arte di esperti esponenti dell’arte della miniatura, che arriva da codici estetici ben consolidati già ben conosciuti, a quel tempo.
Facile dunque il riferimento dei livelli leggibili che traspone la gerarchia di messaggi nelle facciate, presentando, la parte più luminosa in cima, dove la luce smorza le asperità, appiattendo i volumi, luce-verità. E invece si adombrano e si incidono con nicchie a ìncavi o a sporgenze colonnate, balaustrate, secondo Hersey, ai livelli, ma mano più bassi. Lì, nel luogo dell’umana miseria, della continua mutazione e del tempo limitato che consuma l’uomo. Là, dove le divinità antiche con smorfie grottesche giocano tra quegli alberi sacri decorati e inghirlandati. Il recinto dell’architettura e dello ‘spazio’ del sacro. Fin da tempi lontanissimi, è stata questa la battaglia; si è sempre cercata, a fatica, la distanza dalle legioni di demoni nascosti nella densa ombra dei rilievi, dalla sua cupa densità; evidente metafora della presenza, cangiante e inattesa, del ‘caso’, e del conseguente disorientamento, nell’esistenza, durante la caduca vita dell’uomo.
A sinistra particolare bassorilievo di Gisleberto, Il superbo dannato, part. da Il Giudizio Universale, Autun (Francia) cattedrale di Saint-Lazar; a destra omuncolo seduto a conferma di quanto interpretato da Chiara Frugoni, l’atteggiamento dell’altezzoso e arrogante, è quella che si vede in figura seduto e con le mani sulle ginocchia. Le due immagini hanno quindi la postura comune del soggetto. Quindi, importante anche il caso sulla facciata di S. Domenico a Nardò (Le), dove le regole domenicane del vescovo (Ambrogio Salvio 1569 – 1577) vennero scolpite sotto forma di omuncoli dalle diverse posture e con attributi diversi. La rivalutazione dei simboli del linguaggio medievale aiutava la comunicazione con il popolo
I particolari, dunque, sono importanti se saputi interpretare. Isolati e studiati, ma competentemente mai strappati dal loro contesto culturale. Sono la ‘materia’ del testo di Francesco Danieli. Essi possono orientare verso ipotesi di lettura alternative e complementari, seguendo l’interessante direzione dell’iconologo, alla scoperta di ciò, che di più prezioso, possiamo ancora scorgere, intorno a noi.
nella foto di testa dal titolo ANTIQUARIA i particolari sono: Chiesa dell’Immacolata 1 – 2 – 3; Chiesa dell’Incoronata 4 – 5 ; chiesa de LaRosa 6 ; chiesa di San Domenico 7