Photo credit: Mario Antonio Pena Zapateria / Wikimedia Commons / CC BY-SA 2.0.
Inauguriamo lo spazio Retro-cinema dedicando speciali alle opere passate di attori e registi che stanno facendo parlare di sè in questi giorni.
Prima del recente Gravity, prima di Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, il messicano Alfonso Cuaron si fece conoscere al grande pubblico con I Figli degli Uomini.
In un futuro prossimo, la razza umana è al limite della disperazione. Da decenni ormai non nascono più bambini in tutto il pianeta a causa di un’infertilità inspiegabile, lasciando ai popoli la cruda consapevolezza di essere gli ultimi rimasti prima dell’estinzione. Un mondo senza futuro, precipitato in una depressione sociale fatta di kit per il suicidio “dolce” ed emigrazioni disperate, represse con razzismo feroce. Un futuro distopico, tema caro alla fantascienza che regala cartoline da brivido (come in Elysium), che, questa volta, forse preoccupa di più perchè non è fatto da bombe atomiche o cataclismi, ma dalla mancanza di speranza e dalla degenerazione della civilità. Quasi a dire che non servono grandi minacce come ingredienti per un domani da incubo, ma basta una lenta e progressiva perdita di speranza.
Theo (Cliwe Owen) viene contattato da una ex amante, leader di un movimento clandestino, per scortare una ragazza incinta in un posto sicuro, per proteggere la madre e il bambino. Nonostante Theo accetti l’incarico per parziale interesse, essendo sprofondato nel cinismo e nella perdita di ideali, finirà per ritrovare il coraggio e l’idealismo che lo avevano distinto da giovane. Tratto comune al cinema di Cuaron sembra essere il “viaggio” in senso metaforico. Sia il personaggio Sandra Bullock di Gravity che il giornalista Theo sono persone comuni. Entrambi catapultati in una situazione estranea alla loro quotidianità, saranno costretti confrontarsi con sè stessi lungo il cammino, elaborando i propri lutti e traendone forza per maturare e uscirne rinnovati. A fare da spalla a Cliwe Owen, un eclettico Michael Caine in chiave hippie e una fugace Julianne Moore.
I Figli degli Uomini è un “road movie” in cui Alfonso Cuaron incastona dramma, atmosfera sacrale e scene dal forte impatto (come la fuga dal centro profughi, girata con il taglio di un film di guerra, con una telecamera sporca di sangue che segue Theo incespicando tra palazzi bombardati e cadaveri). Forse in mezzo a questa odissea vien da chiedersi i “perché” e i “come” legati alla miracolosa gravidanza. Lo spettatore viene lasciato con l’incognita del “dopo”, a missione compiuta, facendo sembrare sconclusionato uno scappare tra capo e collo senza soddisfare la curiosità stimolata sino a quel punto. La parziale incompiutezza però è voluta: I Figli degli Uomini punta a raccontare l’uomo e il suo rapporto con il mondo, destinato a degenerare in assenza di prospettive (di cui l’assenza di figli è una metafora), così come la crescita personale. Un titolo interessante per come dipinge i personaggi, per come li costruisce e dà loro spessore. Dove la mèta è solo un pretesto, quello che importa è la strada percorsa.