Magazine Cinema
di Deepa Mehta
con Satya Bhabha,, Shahana Goswami, Rajat Kapoor, Shabana Azmi
genere: drammatico
durata, 146
Una volta si sarebbe definito un film d'altri tempi. Oggi, invece, immersi come siamo in una modernità che mescola vecchio e nuovo, appare più difficile cercare una definizione omnicomprensiva per definire le caratteristiche di un film come "I figli della mezzanotte" della regista indiana Deepa Mehta. Una verifica incerta, dunque, ma con un punto di partenza sicuro, individuabile nella matrice letteraria, ispirata dall'omonimo libro di Salman Rushdie, poi rincarata in fase di realizzazione dalla presenza dello scrittore chiamato a firmare anche la sceneggiatura. Un imprimatur, quello di Rushdie, rintracciabile nella voce over che fin dalla prima scena introduce lo spettatore nel paesaggio esotico e affascinante che fa da sfondo alla vicenda, e poi, di volta in volta, lo accompagna attraverso gli snodi di una storia che prende le mosse dalla vigilia dell'indipendenza dell'India avvenuta il 15 Agosto 1947, per concludersi dopo una serie di crisi e di rovesci che porteranno alla nascita del Pakistan e del Bangladesh, territori diventati indipendenti al termine di guerre sanguinose, con la sconfitta elettorale del primo ministro Indira Gandhi nel 1977. Un percorso storico ed epocale che la pellicola decide di ripercorrere con fluvialità romanzesca (ecco un altro lascito di Rushdie) attraverso le vicende private di tre personaggi, uniti dal fatto di essere nati allo scoccare dell'ora fatidica in cui la nazione si liberava dal giogo britannico. Ed è proprio nella prima parte dell'opera, quella in cui la vicenda si mantiene lontano dalla logica del resoconto ideologico e politico, per abbracciare l'umanità tragicomica di Saleem Sinai, il vero protagonista del film, che "I figli della mezzanotte" esibisce le sue migliori qualità. È qui che il realismo magico, giustificato dai poteri sovrannaturali di cui i bambini sono portatori, si sovrappone perfettamente con il pittoresco di uomini e donne, e con la stravaganza dei loro costumi, in continua oscillazione tra il conservatorismo di famiglie fortemente patriarcali rispettose della tradizioni, e un forte spinta innovatrice, trasfigurata soprattutto nella volontà di trasgredire le regole, o anche di confermarle, qualora ce ne fosse bisogno - Saleem, Shiva e Parvati seppur naturalmente "diversi" si muovono all'interno di un contesto comunque accettato - per rimanere se stessi. Una dialettica che sottende gli umori di un paese in fermento, attraversato da una voglia di cambiamento che le differenze e i contrasti tra i vari personaggi riescono a mettere in campo. Un bottino di simpatia e coinvolgimento che il film disperde nella seconda parte, quando, dopo che Saleem è costretto a lasciare l'amata India per andare a vivere in Pakistan, siamo costretti a fare i conti con la tragedia della guerra, l'avvicendarsi dei governi e, più in generale, con un almanacco storico che assomiglia al telaio di Penelope, con il succedersi di finali continuamente riaperti e poi di nuovo chiusi. Una matassa ingombrante che si dilunga in inutili ripetizioni e si dimentica di portare avanti le psicologie dei personaggi, destinati a smettere di essere persone per diventare la metafora di una nazione in cerca d'identità.
Deepa Mehta gira con mestiere cercando di sabotare la vocazione letteraria del film, lavorando sui colori iperreali della fotografia, variando le angolazioni delle riprese, alternando la camera fissa con quella a mano, mantenendo fuori campo il sangue e la violenza, sottratte al voyeurismo dello spettatore e proposte indirettamente nelle conseguenze che esse comportano sulle vite dei protagonisti. Ma tutto ciò non le impedisce di impantanarsi nelle pastoie del film a tesi, con una serie di frasi edificanti e giustificatrici che lasciano fuori qualsiasi riferimento alle differenze religiose, pur presenti, e inneggiano ad una pacifismo condito di passaggi buonisti in cui i cattivi non diventano mai tali. La sequenza finale è suggellata dal trionfo della famiglia "putativa" (a discapito di quella biologica), che rappresenta nella maniera più scontata la metafora e anche l'auspicio di un India dove le differenze, pur presenti, riescono a convivere.
(pubblicata su ondacinema.it)
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