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I film belli che i David di Donatello hanno dimenticato/1: TIR

Creato il 12 giugno 2014 da Luigilocatelli

Ai David di Donatello della ‘topa meravigliosa’ non ci son stati solo i guai combinati dallo sciagiurato conduttore Paolo Ruffini. Hanno anche premiato robucce come La mafia solo d’estate trascurando nuovi film italiani che hanno smosso le acque stagnanti del nostro cinema. La lista dei dimenticati comincia con TIR di Alberto Fasulo.10271408804_f6b9647ff0_hTIR, un film di Alberto Fasulo. Con Branko Završan, Lučka Počkaj, Marijan Šestak. Vincitore del Marc’Aurelio d’oro al festival di Roma 2013 come migliore film.
10270782906_3f51d19592_h
10271127554_898b53a3c6_hNon se l’aspettava nessuno che al festival di Roma battesse il bellissimo Her. Adesso TIR, del friulano Alberto Fasulo, arriva al cinema, e non bisogna perderlo. Un uomo che ha lasciato il suo lavoro di insegnante in Slovenia per fare da noi il camionista. Un mondo visto attraverso la cabina di un Tir e gli occhi di chi lo guida. Strade e luoghi anonimi e seriali. Un cinema ipnotico e straniante. Un grande risultato. Voto tra il 7 e l’8.
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Certo che all’ultimo festival di Roma, lo scorso novembre, tutti pensavamo vincesse Her di Spike Jonze, un incanto di film, giustamente poi molto nominato agli Oscar. Invece – botto che nessuno si aspettava – la giuria presieduta da James Gray (che tra lui e Jonze non sian mai passati flussi di simpatia reciproca? chissà) ha deciso diversamente dando il Marc’Aurelio d’oro, che poi è il premio massimo della manifestazione, a questo piccolo e indipendentissimo film italiano venuto dal Nord-est, da quella marca di confine e di incroci e passaggi che è il Friuli. TIR batte clamorosamente Her, e non è un calembour. Adesso lo possiamo vedere al cinema, non in moltissime sale per la verità (qui sopra la lista), distribuito dalla meritoria Tucker che, essendo basata a Udine, giustamente ha un occhio di riguardo per i film del territorio, girati dalle sue parti, e ultimamente ce n’è più d’uno nel suo listino. Non solo TIR, prima è toccato a Zoran, il mio nipote scemo – quasi 600mila euro incassati, non male -, tra poco sarà il turno di The Special Need, già visto a Locarno a Cineasti del presente. Dico subito che questo di Alberto Fasulo è tra le cose migliori del cinema italiano dell’ultimo anno e mezzo/due, insieme a Salvo di Piazza-Grassadonia e al pur molto discusso e spesso odiato La grande bellezza. Film anomalo fino alla inclassificabilità di genere, e per più ragioni. Film di finzione – e Fasulo, visto e sentito a Milano qualche giorno fa all’anteprima di TIR, lo ribadisce con forza – , anche se molti lo inseriscono insieme a Sacro GRA e altri titoli in quella documentary renaissance che è stata uno dei tratti forti del cinema 2013. Però. Però con la natura del documentario TIR ci gioca parecchio e arditamente, mutuandone quella registrazione del reale così-com’è che ne è il segno e il senso, e usandone codici e linguaggi per costruire una narrazione trompe-l’oeil in cui la storia, il racconto, simulano assai bene il vero e l’oggettività fattuale. Certo, non è il caso di scannarsi ancora su cosa sia doc e cosa fiction, e sul quanto e il come in molto cinema d’oggi i due livelli ambiguamente si mescolino e confondano. Finzione, allora, questo TIR. Che nasce però da un precedente progetto di Fasulo di raccontare con un doc il sistema dei grandi camion e di chi ci sta al volante e se ne sta chiuso per giorni, settimane, in cabina, a contemplare un mondo che è fatto di asfalto, aree di sosta, cartelli segnaletici, scali, luoghi di carico e scarico e paesaggi anonimi e seriali che scorrono dietro al finestrino. Quattro anni passati, grazie anche all’appoggio di un’azienda veronese di trasporti su strada, dentro l’universo abbastanza a parte dei supercamion di nuova generazione che percorrono l’Europa spostando incessantemente merci da un punto all’altro. Interessato soprattutto, Fasulo, a chi quei mostri li guida, a quei driver che una cattiva mitologia ha sempre descritto come uomini rozzi e assai machos, dai forti appetiti alimentari e sessuali. Cliché. Il regista si è reso conto però che attraverso il documentario non avrebbe mai potuto restituire quelle vite, i sogni e i bisogni e le ansie e le sofferenze – in primis quella della lontananza continua e a tratti lancinante dalla famiglia – se non violentandole, entrando troppo, e voyeuristicamente, nell’intimità dei suoi soggetti. Così, dopo anni di preparazione e lavoro sul campo di documentazione, dietrofront, e la decisione di passare a una storia di finzione. Per potenziare e portare al limite estremo la verosimiglianza ha ingaggiato un attore dalla ex Jugoslavia, Branko Završan (stava nel mitologico film bosniaco No Man’s Land vincitore una decina di anni fa di un Oscar), gli ha chiesto di prendersi la patente per camion e di imparare a guidarli e poi – dopo regolare assunzione di quattro mesi da parte della dita veronese di cui sopra – l’ha piazzato al volante di un Tir e l’ha pedinato con la macchina da presa. Il risultato è questo che vediamo, ed è un risultato notevolissimo, a tratti straordinario.
Branko Završan è Branko (ecco, un altro clamoroso sconfinamento tra realtà e finzione-rappresentazione), insegnante sloveno che per guadagnare di più e meglio molla la scuola, sicché eccolo da intellettuale trasformarsi in muscolare driver di Tir su e giù per l’Europa, ma preferibilmente lungo l’asse est-ovest Spagna-Francia-Nord Italia-Slovenia-Ungheria. Lo conosciamo mentre in cabina fa coppia con il copilota, il connazionale Maki, e son brandelli di conversazione, e soste che si trasformano in piccoli accampamenti, parcheggi lungo muri graffitati dove ci si lava a pezzi con quel po’ d’acqua dei serbatoi e si cucina acrobaticamente su minuscoli fuochi, e si pensa con malinconia a quelli che stanno a casa, la moglie, i figli. Poi, per ordini superiori del boss – gli ordini arrivano impersonalmente attraverso telefonate e messaggi in codice – i due son costretti a separararsi, ognuno da solo sul suo camion: “da oggi non siamo più marito e moglie”, commenta Branko. La moglie, quella vera, c’è, e si fa sentire per voce, per telefono, e vorrebbe che lui tornasse a casa, tornasse a insegnare, che importa prendere meno soldi (B. da camionista in Italia guadagna tre-quattro volte che da prof in una scuola slovena), l’importante è stare insieme, e insomma siamo al solito bovarismo di molte mogli che si senton sole e trascurate. Fasulo è abile nel tessere una narrazione attraverso la pur evidente scarsità di elementi, non ci annoia mai, riesce miracolosamente a inghiottirci nel flusso, nello scorrere dei giorni, delle ore, del suo protagonista. Ci scaglia con lui nella cabina, il centro di tutto il film, astronave da cui il solitario Branko osserva quel cosmo strano, apparentemente anonimo e sterile e asettico eppure percorso da infinite vibrazioni, che è il mondo dei driver. Strade e strade, aree di servizio, camion su camion, container, e quei non luoghi che sono i luoghi della logistica, in un panorama di macchine e uomini-robot addetti al carico-scarico fascinosamente straniante, come in uno sci-fi on the road. Con un che, anzi molto, che pare venuto dallo spettrale Deserto rosso di Antonioni. Il mondo visto da un finestrino, dove la geografia perde di senso e si fa astratta, anonima, inafferrabile, fungibile, puro geroglifico sputato da un navigatore, dove Francia Italia Spagna Ungheria si confondono in giorni e notti inesorabilmente uguali. La suggestione, la meraviglia di TIR, è che ci fa entrare nei percorsi e anche nelle fredde logiche delle merci, nei flussi incessanti di beni che alimentano e soddisfano i nostri bisogni, ma dei quali niente sappiamo. Scivoliamo con Branko in compagnia di pomodori patate mele maiali e intanto ci ritroviamo immersi in un costante delirio, in una percezione alterata, nella veglia febbrile di chi afferra e perde e ritrova brandelli di realtà, di chi non ha più radici ed è perennemente in circolo e movimento, anche se la sensazione è di muoversi in un labirinto e di non spostarsi mai davvero, in una sorta di coazione all’eterno ritorno. Con una sequenza formidabile che traduce questo senso di sperdimento, il passaggio di Branko attraverso il dedalo dei TIR ammassati dei camionisti in sciopero. Secondo Fasulo, Branko funge da metafora dell’uomo contemporaneo costretto a una continua transumanza, alla precarietà. Ma il protagonista di TIR credo abbia più a che fare con l’archetipo di Ulisse e con la sua odissea, con la sua lontananza coatta da Itaca e l’ossessione di tornarci. Branko vaga senza mai un vero approdo, e il sospetto (ce l’avevamo già con Ulisse, del resto) è che sia questo quanto davvero vuole e il senso del suo essere, lo sradicamento, il nomadismo, e che non abbia nessuna voglia di tornarsene a casa dalla sua Peneleope. TIR, non so quanto intenzionalmente da parte del suo autore, finisce con l’essere il gran ritratto di un uomo-monade che ama la solitudine, di un eremita del nostro tempo la cui cabina di pilotaggio diventa l’equivalente della colonna degli antichi stiliti. C’è un che di ascetico e di monacale in Branko, di volontaria rinuncia al mondo e alle sue pompe per immergersi, attraverso il ritiro e la separatezza, nella ricerca dell’assoluto. Un percorso zen o, se preferite, di santità, di depurazione dalle cose mondane e di immersione nel trascendente. Qualcosa che gli permette di sopportare anche quella moglie così pressante e quel figlio stronzo che, per comprarsi un nuovo appartamento, non si fa il minimo scrupolo a spogliarlo di tutti i risparmi. TIR funziona meglio nell’astrazione, quando meno ci dice di Branko e ce lo mostra solo come uomo vagante in quella galassia di asfalto e centri logistici, per così dire de-psicologizzato e anche de-narrativizzato (e son momenti che fan venire in mente sia il remoto Driver di Walter Hill che il Drive di Refn). La lontananza dalla famiglia e dagli affetti, tema che mi è parso stia molto a cuore al regista, finisce con l’essere il dato meno interessante del film, il più banalizzante, ed è questa zavorra psicologistica e sociologistica a impedire a TIR di ergersi a opera assoluta. Se Fasulo avesse ulteriormente scarnificato il suo racconto, se avesse accentuato l’impassibilità fenomenologica con cui registra i movimenti anche interiori del suo Branko, se solo si fosse liberato di ogni quisquilia familiar-sentimentale (compresa la figura del collega Maki che molla tutto pur di tornare a casa dal figlio malato), avremmo avuto qualcosa di molto vicino al capolavoro. Non è così, ma va bene lo stesso. Qualche parola sull’attore, su Branko Završan, meraviglioso nel cancellare ogni confine tra vita e finzione e nel trasmetterci la mitezza e insieme la resistenza del suo personaggio, e il suo strano percorso ascetico per mezzo delle ruote di un camion. Di una bellezza e una luminosità, anche, da vero santo popolare. (“Ma questo Branko è un santo!”, ha esclamato difatti Tatti Sanguineti durante il Q&A col regista seguito alla proiezione.)


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