Ai David di Donatello della ‘topa meravigliosa’ non ci son stati solo i guai combinati dallo sciagiurato conduttore Paolo Ruffini. Hanno anche premiato robucce come La mafia solo d’estate trascurando nuovi film italiani che hanno smosso le acque stagnanti del nostro cinema. Dopo TIR la lista continua con Salvo.
Salvo, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Con Saleh Bakri, Sara Serraiocco, Luigi Lo Cascio, Mario Pupella, Giuditta Perriera, Redouane Behache, Jacopo Menicagli. Presentato a Cannes 2013 alla Semaine de la Critique, ha ottenuto il massimo riconoscimento da parte della giuria, il Premio Nespresso.Come Sorrentino, anche Salvo a Cannes è piaciuto molto più agli stranieri che agli italiani. Forse perché ripropone l’eterna Sicilia dei picciotti e dei boss di malavita. Un noir con un killer e una ragazza cieca che finisce in mélo. Ma a sbalordire è la forza dello stile di cui i due esordienti Grassadonia e Piazza danno prova. Salvo è ambiziosissimo, così ambizioso da sfiorare l’arroganza. Sfida lo spettatore, lo mette alla prova. Però merita la fatica e la visione. Due nuovi autori sono nati. (E Saleh Bakri, attore palestinese, è perfetto). Voto 7 e mezzoCome La grande bellezza di Sorrentino, anche Salvo a Cannes è piaciuto più agli stranieri che agli italiani, in particolare ne sono andati pazzi i francesi (che ne sono anche coproduttori), tant’è che Libé gli ha dedicato due pagine, mentre la nostra stampa l’ha liquidato in poche righe (quella poca che ne ha scritto). È che al medio giornalista italiano in Cannes è parso zeppo di cliché, cosa del resto abbastanza vera. Uno su tutti: Sicilia uguale criminalità mafiosa. Presentato alla Semaine de la critique, la rassegna più autoriale e radicale tra quelle parallele al festival (assai più esploratrice, anche per la discendenza storica dai Cahiers, della Quinzaine des Réalisateurs, che quest’anno ha forse esagerato con prodotti mainstream), si è portato via il massimo premio, assegnato da una giuria presieduta dal portoghese Miguel Gomes. Che non è proprio uno qualsiasi, essendo il regista che l’hanno scorso ha trionfalmente espugnato molti festival e circuiti art house con il suo Tabu e oggi tra gli autori più amati dai cinéphiles. Salvo son riuscito a vederlo la sera tardi dopo l’ennesima fila sotto la pioggia, e devo dire che è di quei film che non possono piacerti subito, pronti a dividere e a suscitare reazioni opposte. Film di non immediata simpatia, che fa molto per non farsi voler bene e perfino per farsi detestare, dichiarando fin dalle prime sequenze ambizioni autoriali altissime, anche una certa supponenza. Certo, si tratta (anche) di un noir, (anche) di un mafia movie con un picciotto-killer siciliano al servizio di un boss di non si capisce che cosa, ma di sicuro di loschi traffici. Certo si tratta (anche e soprattutto) di un classicissimo melodramma. Solo che i modi sono anomali. Lentezze da rituale nero, andamento ieratico e solenne, fotografia a forti contrasti e iper-espressionista (bellissima, di Daniele Ciprì, quasi coautore del film), forti slittamenti verso il barocco e una sorta di pulp etnico e grottesco. Questo è un film che gronda sicilianitudine, come certi Ciprì e Maresco, come tanta letteratura dell’isola e in tutta evidenza intende collocarsi – o almeno provare a collocarsi – nei cieli del sublime e dell’assoluto, dell’Opera Massima. Solo chi ha profonda stima di sé e un’immensa sicurezza può all’esordio tentare un film così, intendo così fuori e lontano dal canone del cinema medio italiano attuale. Opera siciliana, sicilianissima per appartenenza identitaria, per la sua anima, per l’orgoglio, e non solo per gli ambienti e il soggetto, poiché, come ricordava il principe di Salina, l’orgoglio è un dato genetico di un popolo che si sente il migliore di tutti e già simile agli dei. E su di me – lombardo, anzi brianzolo di origine – questa différence siciliana ha sempre esercitato una fascinazione immensa. Difatti qualche mese fa ho molto amato un altro film con la sicilianità impressa in ogni dove, mi riferisco a La città ideale, esordio sghembo e strano e interessante come regista di Luigi Lo Cascio, il quale, non per niente, torna qui in Salvo come attore in un ruolo collaterale che non dimentichi, quello del padrone di casa del picciotto pensionante. Ora, di fronte a quello che a molti appare improntitudine o arroganza io invece mi arrendo, visto che della Sicilia mi è sempre piaciuto tutto, compresa quella pulsione insopprimibile a sentirsi migliori. Ecco, nel film del duo Grassadonia e Piazza ho ritrovato queste stigmate, e non ho potuto non volergli bene, nonostante tutto. Perché va detto che Salvo fa di tutto per tenere a distanza lo spettatore, e orgogliosamente si arrocca nella propria alterità e si rende poco accessibile. È il film a dettarci le regole del gioco e a condurlo: prendere o lasciare, sappiate che nulla sarà fatto per compiacervi. Molti hanno lasciato. C’è chi è uscito dopo mezz’ora, chi l’ha detestato cordialmente, chi – parlo degli italiani in Cannes – non s’è rallegrato nemmeno per il premio che gli hanno dato. La prima parte, bisogna ammmetterlo, è dura da sopportare come un’iniziazione tribale o sacra. Salvo scampa a un agguato ed è costretto a uccidere chi ha cercato di ucciderlo: gli dà la caccia, penetra in casa sua, lo fa fuori. Ma quella non è solo la casa della vittima, ci vive anche la sorella cieca, Rita. Assistiamo così per decine di spossanti minuti alla ragazza terrorizzata che avverte la minaccia, la presenza del killer nemico in casa sua, e si muove strisciando, a tentoni, mentre la macchina da presa implacabile scruta la sua faccia, ci mostra le sue pupille da cieca che si muovono a disegnare strane traiettorie, e sullo sfondo l’ombra del killer, l’ombra di Salvo, di cui finora non abbiamo mai visto la faccia, solo gli occhi. Una rivisitazione in chiave siculo-autoriale dei classici hollywoodiani di ragazze cieche intrappolate in luoghi chiusi in compagnia di un assassino, che so, Gli occhi della notte di Terence Young con Audrey Hepburn, o Terrore cieco con Mia Farrow (però non ditelo a Grassadonia e Piazza, ci resterebbero male a essere paragonati a Terence Young). Poi, miracolo, la ragazza incomincia a vedere, una luce baluginante e qualche ombra, qualche sagoma. Il trauma per l’uccisione del fratello le ha fatto riacquistare la vita, o forse si tratta di evento soprannaturale, non ci è detto, non ci viene spiegato, e in fondo poco importa. Quando lei ricomincia a vedere, anche noi finalmente vediamo il volto di Salvo: che è poi quello di Saleh Bakri, attore palestinese già visto nel bellissimo film israealiano La banda e nel bruttissimo La source des femmes di Radu Mihaleanu, dotato di una coolness da grandi duri del cinema, genere Alain Delon e Clint Eastwood (riflessione: la Sicilia e i siciliani non devono più essere gli stessi se per la parte di un picciotto si è dovuti ricorrere a un arabo). Gli autori hanno l’accortezza di fargli pronunciare solo qualche parola, sicchè la credibilità di Bakri nel ruolo non viene messa a rischio. Certo, che noi lo vediamo in faccia solo quando Rita vede, dev’essere un messaggio lanciatoci dai due registi, ma non ci ho pensato troppo su, preferendo seguire le giravolte del plot. Salvo sa che dovrebbe eliminare anche Rita in quanto testimone del delitto, quelle sono le regole: ma non lo fa. La nasconde e la tiene rinchiusa, mentre lui conduce la sua vita apparentemente normale come pensionante in una famiglia molto, molto italo-mediterranea (e le due figure dei padroni di casa sono tra le cose più riuscite del film). Il problema è che Salvo si è intenerito per quella ragazza che avrebbe dovuto ammazzare, e quando il suo boss viene a saperlo saranno guai per lui. Gran finale in puro melodramma cui gli spettatori che hanno resistito fino quel momento possono abbandonarsi senza più remore. Variety l’ha definito nientemeno che il simbolo della rinascita del cinema taliano. Certo che di film dal carattere così deciso e forte se ne sono visti pochi ultimamente dalle nostre parti. Salvo per la sua radicalità e la forza dello stile mi ha ricordato Frammartino, il primo Sorrentino, il Garrone di L’imbalsamatore. Un incontro di generi, il noir e il mafia-movie, che se molto concede ai cliché narrativi, pochissimo invece ai modi e agli stili. L’operazione sui generi attraverso l’autorialità ricorda quella che fece a suo tempo Tarantino con Le iene. Anche se poi di strettamente tarantiniano in Salvo non c’è niente.
Magazine Cinema
I film belli che i David di Donatello hanno dimenticato/2: SALVO
Creato il 12 giugno 2014 da LuigilocatelliPossono interessarti anche questi articoli :
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