Non si fa mancare nulla l'austriaco Ulrich Seidl, regista che da anni divide la critica con il suo cinema crudo e provocatorio e il cui ultimo progetto è l'ambiziosa trilogia Paradise, incentrata sulle contraddizioni e lo squallore dei rapporti umani nel mondo contemporaneo: se il primo episodio, Love, era a Cannes 2012 e il secondo, Faith, ha “scandalizzato” l'ultima Mostra di Venezia, tocca alla 63^ edizione della Berlinale ospitare il capitolo conclusivo, Hope. C'è un sottile fil rouge narrativo che lega i tre episodi: il personaggio al centro di questo film, Melanie, è rispettivamente figlia e nipote delle protagoniste delle pellicole precedenti. Ancora un ritratto femminile, dunque: quello di una tredicenne dolce e ingenua, colta nel momento di passaggio all'età adolescenziale e ai primi turbamenti amorosi.
Alle prese con problemi di sovrappeso, Melanie viene spedita dalla zia in un centro per giovanissimi obesi, dove diete ed esercizi sportivi si susseguono secondo rigidissime quanto ridicole regole militaresche. In questo grottesco collegio-lager dove ragazzi provenienti da famiglie disgregate e disfunzionali si sottopongono controvoglia a estenuanti torture fisiche e a noiosi momenti ricreativi, per poi infrangere sistematicamente il protocollo trangugiando cibo e alcool di nascosto, Melanie si invaghisce dell'affascinante medico di mezza età, che non può fare a meno a sua volta di sviluppare un'attrazione per lei.
Spiazzando chi si aspetterebbe una rappresentazione del rapporto tra i due virata sui toni del morboso, Seidl sembra abbandonare il suo consueto modus operandi crudele ed esplicito e tratta un tema così scomodo con grande delicatezza, non senza toccare momenti di lirismo. Colpisce il personaggio di Melanie (interpretata dalla giovanissima Melanie Lenz, presenza sublime e pura), anti-Lolita così innocente e genuina in confronto alla più smaliziata amica Verena (Verena Lehbauer), eppure disarmante nei suoi timidi tentativi di seduzione. E desta sentimenti contrastanti il personaggio ambiguo e contraddittorio del dottore (l'ottimo Joseph Lorenz), costantemente in bilico tra resistenza e cedimento alla tentazione.
Il regista indugia sui corpi imperfetti dei personaggi e toglie ogni aura di bellezza al cameratismo e all'età adolescenziale (vedi la scena della fuga clandestina di Melanie e Verena); usa una certa dose di ironia, che però strappa al massimo risate a denti stretti. Quello che si prova alla visione è semmai fastidio e amarezza, senza che pure ci siano concessioni alla volgarità. Tuttavia, se l'“amore” e la “fede” mostrati nei due precedenti film erano pure contraddizioni in termini, stavolta la “speranza”, alla fine, sembra esserci davvero: un esile raggio di sole in un mondo che ha insterilito rapporti e sentimenti.
Voto: 3/4