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Creato il 12 febbraio 2013 da Ifilms

in the name of scenaDopo aver indagato il fenomeno delle studentesse-escort in Francia con Elles, la regista polacca Malgoska Szumowska torna a occuparsi di argomenti scottanti, presentando in concorso alla Berlinale 2013 In the name of.

In una Polonia rurale e desolata, tra famiglie contadine prigioniere di un’agghiacciante povertà materiale e intellettuale, un giovane sacerdote tenta di gestire una comunità di ragazzini difficili scampati al riformatorio e di stabilire un fragile equilibrio tra l’aggressività “urbana” degli adolescenti e quella “selvaggia” dei locali.

Alle prese con i tormenti della carne e della solitudine propri del sacerdozio contemporaneo, minato nelle sue certezze dogmatiche, padre Adam cerca di sfuggire a un passato torbido e nebuloso come il mattino dopo una sbronza, condizione che sembra conoscere più che bene. Nella campagna polacca piatta e deprimente, il prete vuole riconciliare il suo spirito inquieto e quello dei suoi chiassosi ragazzini con la natura: una notte stellata, un falò e una chitarra sembrano restituire la pace a quelle vite turbate.

Ma la fame, alla fine, si rivela essere l’unica pulsione vitale a trionfare sulla tranquilla monotonia della natura: fame di amore, di carnalità, di contatti umani. Così padre Adam non può sfuggire ai suoi appetiti, né può costringere i suoi ragazzi a farlo: soccombe all’istinto, che arriva a dilaniare l’equilibrio faticosamente costruito, escludendo dal suo turbine solo lo scemo del villaggio, tormentato, abusato, eppure felicemente inconsapevole, sempre pronto a celebrare con grida inarticolate la propria gioia. La società, e la Chiesa, non possono far altro che nascondere lo sporco sotto il tappeto (contrariamente agli intenti dichiarati), senza per questo impedire alla fame di prendere il sopravvento.

Una regia fredda, distaccata, persino cruda, accompagna questa dolente catena di solitudini e disperazione, di umanità raggelata e raggelante, offrendo il ritratto di un uomo, prima che di un religioso, sinceramente spaventato e incapace di conciliare le proprie intenzioni con i propri bisogni.

In the name of è costruito intorno a un paesaggio vacuo e disturbante come gli sguardi dei suoi protagonisti: ragazzi perduti, sporchi, i cui volti aspri si aprono raramente in sorrisi ferini. La sua efficacia si perde però in un finale forzato, quasi posticcio, con un’inutile coda risolutiva ed esplicativa: se si fosse chiuso sulla suggestiva scena della processione in campagna (con colonna sonora punk-rock) sarebbe potuto essere un bel film. Ma così non è, purtroppo, e si limita a essere un film sufficiente.

Voto: 2,5/4


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