Maurizio Nichetti è uno dei personaggi più eclettici e interessanti del cinema di casa nostra. Mimo e attore (fondatore della compagnia teatrale Quelli di Grock), esordisce come sceneggiatore nella fucina di Bruno Bozzetto, insieme al quale, e con Guido Manuli, scrive quello che diventerà un caposaldo dell'animazione italiana, sperimentando un'innovativa commistione di live action e disegni animati: Allegro, non troppo (1975).
Nel 1979 con Ratataplan dirige la prima di una serie di commedie surreali, basate su un tipo di comicità praticamente muta, che va a recuperare la tradizione di Chaplin, Keaton e del francese Jacques Tati. Si afferma con i successivi Ho fatto splash! (1980) e Domani si balla (1983), con Mariangela Melato, dove Maurizio continua a interpretare buffi e stralunati personaggi a metà tra il reale e il fantastico. Con Volere volare (1991) torna a sperimentare con il cinema di animazione, raggiungendo un risultato pionieristico, e fino ad allora impensabile per la commedia italiana, tradizionalista e rigida, raccontando la storia di un animatore che, gradualmente, si trasforma in un disegno animato.
La vena creativa di Maurizio lo porta anche a essere uno dei primi in Italia a utilizzare il digitale per un lungometraggio: lo fa già nel 2001 con Honolulu Baby, in cui riprende il personaggio dell'ingegner Colombo, già protagonista di Ratataplan.
Oltre a essere regista (anche teatrale), animatore, attore e sceneggiatore, Nichetti insegna alla Scuola del Cinema e della Televisione di Milano, città da sempre presente e celebrata nei suoi film.
Incontriamo Maurizio, molto attento ai giovani che vogliono inseguire il sogno del cinema, in tutte le declinazioni possibili, e gli chiediamo qualche consiglio su come mantenere viva la nostra passione in questo momento così difficile.
Lei ha introdotto nel cinema italiano un tipo di commedia che deve molto ai grandi del muto e ad autori come Jaques Tati. Una comicità surreale e delicata, senza tante parole. In che direzione sta andando la commedia italiana oggi, con il cinepanettone in crisi sostituito da un tipo di comicità ancora più verbalmente aggressivo (I soliti idioti), oppure da blandi tentativi di riscatto verso la commedia “pulita” che però non hanno finora portato a risultati degni di nota?
Io mi domanderei dove sta andando il cinema in generale, perché la commedia è una goccia in una mare che si sta modificando moltissimo. Diciamo che il cinema in generale, negli ultimi dieci anni, sta cercando di sopravvivere in un secolo che non è più il suo. Inventato alla fine del'800, per tutto il '900 il cinema è stata un'arte nobile che ha prodotto capolavori, autori, film che si rivedono sempre volentieri, classici che hanno segnato un'epoca rimasti godibili anche dopo cinquant'anni. All'inizio del nuovo secolo, con le tecnologie, la rete, la frammentazione di YouTube, il 3D, la conversione al digitale quasi obbligata, il cinema sta cambiando: diventa più virtuale, fantastico, avventuroso e meno autoriale, meno verbale. È sempre più un'arte visiva, in cui prevale l'aspetto attrazionale: quello che una volta era colore, sonoro, Panavision, oggi diventa 3D. Stiamo tornando all'ambito del fenomeno da baraccone, perché la gente, per decidere di uscire di casa e sostituire il televisore con qualcos'altro, ha bisogno di uno stimolo forte, specialmente oggi, quando tra schermi piatti, home theatre, alta definizione eccetera, la funzione del grande schermo si fa più labile.
All'interno di questo panorama di cambiamento, c'è un problema del cinema italiano e della commedia italiana. In linea di massima, il problema della commedia italiana è sempre stato quello di essere legato a una comicità molto realistica: infatti io sono sempre stato considerato “poco italiano”, per via della matrice surreale, un po' favolistica e onirica dei miei film, anche se poi, in realtà, quando presentavo i miei film all'estero sono sempre stati recepiti come molto italiani.
Di fatto, la commedia all'italiana è sempre rimasta in Italia, perché ridere dei nostri dialetti o dei nostri difetti può andar bene a un pubblico un po' provinciale: infatti neanche i grandi attori della commedia all'italiana hanno mai avuto un grande mercato estero. In questo momento particolare, poi, occorre una riflessione in più, perché per convincere la gente ad andare al cinema, un film “normale” non basta: quello lo si può vedere in tv, in streaming, in mille modi diversi. In Italia il digitale sta arrivando adesso, con 12 anni di ritardo. Io ho fatto Honolulu Baby in digitale nel 2001 e mi hanno detto che ero matto. C'erano ancora le lobby della pellicola che sono andate avanti a lavorare ancora un decennio, ma intanto noi abbiamo perso 12 anni di know-how per un passaggio che è indispensabile, inevitabile. Oggi non esistono neanche più stabilimenti per sviluppare la pellicola: ne sono rimasti due a Roma, le pellicole sono tutti fondi di magazzino, manca l'esperienza dei tecnici.
Del resto, girare in digitale o in pellicola non è solo una questione di supporto, ma anche di possibilità creative: da quando Giuseppe Tornatore, ad esempio, ha scoperto il digitale, ha realizzato Baarìa, ricostruendo una città e ha utilizzato una vasta gamma di possibilità nel suo ultimo film.
Allora ci rendiamo conto che il digitale non dev'essere visto come sinonimo di film solamente spettacolare: se Martin Scorsese ha cominciato con il neorealismo di Taxi Driver ed è approdato a Hugo Cabret, trionfo del digitale, mantenendo un altissimo tasso di autorialità, perché in Italia non è possibile un percorso simile? Non è vero che utilizzare il digitale significa rinunciare ai contenuti, al messaggio culturale o sociale in favore di una spettacolarità fine a se stessa.
Forse c'è un problema culturale dalle nostre parti. Lo stesso che ad esempio impedisce all'animazione italiana di decollare. Lei ha lavorato con Bruno Bozzetto e nei suoi primi film ha sperimentato con l’animazione. Eppure in Italia non ci sono grandi studi, né grandi produzioni. Si tratta di mancanza di mezzi o, appunto, di cultura?
Certo, in Italia mancano strutture come la Pixar e la Dreamworks, ma non c'è neanche la cultura dell'animazione. Io me ne sono reso conto lavorando allo studio Bozzetto, uno dei più conosciuti al mondo: pensate che John Lasseter (direttore creativo della Pixar e dei Walt Disney Studios, n.d.a), a Milano per presentare la mostra sulla Pixar, ha detto a Bozzetto che sua figlia ha fatto la tesi di laurea su Allegro, non troppo.
Eppure quando abbiamo realizzato questo film, nel 1975, non abbiamo trovato per tre anni una distribuzione italiana perché volevano solo i film di Walt Disney. Bozzetto è riconosciuto internazionalmente come maestro dell'animazione, ma in Italia non è mai stato considerato.
Lavorare nell'animazione in Italia è faticosissimo e si lavora con budget ridicoli, rispetto a quelli che vengono utilizzati all'estero: ma il confronto con il pubblico avviene lo stesso e, inevitabilmente, risulta impietoso.
Il talento e la genialità non mancano: penso al Pinocchio di D'Alò con dei clamorosi disegni di Mattotti, ad esempio. Ma se il paragone è con le produzioni multimilionarie americane, risultiamo inevitabilmente sconfitti. Non siamo più ai tempi del neorealismo di Ladri di biciclette, che emozionava a dispetto del budget irrisorio: oggi la vita sta andando in un'altra direzione.
Perciò cosa potremmo dire a un giovane che volesse lavorare nell'animazione?
Il consiglio è di guardare tanti film, poi comunque in Italia è molto difficile entrare in uno studio. I pochi studi che ci sono, lavorando serialmente per la TV e dovendo ridurre i costi ai minimi termini, affidano tutte le parti per così dire “di manovalanza” alla Corea, alla Cina. Ma un giovane per cominciare ha bisogno di imparare, non può improvvisarsi capo-animatore di una squadra di coreani o cinesi. L'apprendistato di bottega, quelle fasi che vanno dalla coloritura, all'intercalazione, all'animazione, oggi non c'è più in Italia. L'unica speranza è andare all'estero in un grande studio, purtroppo perdere gli occhi lavorando ventiquattr'ore al pc con software complicatissimi e puntare su una carriera all'interno di quelle strutture.
La difficoltà sarà più o meno la stessa nel campo del live action...
Certo. La cosa che però dico sempre ai ragazzi cui insegno è che le difficoltà che ci sono nel fare cinema sono le stesse, oggi come oggi, di quelle che troverebbero per entrare in banca o fare l'architetto. Allora tanto vale scegliere quello che li diverte. Non si può abbandonare il cinema, perché è difficile lavorarci, e cercare un lavoro d'ufficio, perché non è un'alternativa e poi, oggi, nessuno vi offre di lavorare nemmeno in un ufficio. Per cui continuate a inseguire i vostri sogni. Continuate a parlare delle vostre passioni, come state facendo adesso voi con la vostra rivista. A furia di parlarne, essere all'interno di un processo culturale che smuove qualcosa, prima o poi si troverà un'occasione. Oggi, è vero, c'è una crisi generale che peggiora le cose, ma le stesse difficoltà le abbiamo trovate noi. Voi potete contare invece su una democratizzazione generale delle tecnologie che vi permette, con duemila euro, di comprare un'attrezzatura per fare cinema: basta una videocamera HD e un pc con un software di montaggio. Lo stesso Bozzetto oggi lavora da solo con il pc. La rete permette poi un'ampia visibilità e possibilità di distribuzione dei film, mentre alla nostra epoca questa possibilità non c'era.
Progetti per il futuro? Qualche film in cantiere?
Mi fa un po'impressione dirlo oggi, sembra un annuncio fatto apposta ma è vero...in realtà sto lavorando da due anni su commissione di Lanterna Magica e della RAI a una Vita di San Francesco per bambini. Quando ho scoperto che il nuovo Papa si chiama Francesco a momenti svengo: non è mai accaduto in duemila anni! Avevamo giusto bisogno di un aiuto provvidenziale e io, se fossi un produttore, ne approfitterei. Stiamo lavorando da due anni su questo progetto perché ci piaceva l'idea di presentare ai bambini una figura religiosa, ma dalla grossa valenza sociale. Questo rifiuto della ricchezza e questo abbracciare la povertà in un momento in cui la povertà sta cadendo addosso a tutti è un grosso messaggio. E non è un caso che un Papa, in questo momento di crisi politica e morale della Chiesa, si rifaccia a un simbolo che ha combattuto strenuamente il potere temporale della chiesa. Il rischio è che in Italia non ci si accorga nemmeno di progetti di questo genere perché sono tutti occupati a produrre I soliti idioti.
Considerato il ristagnare del cinema italiano come l'abbiamo delineato fin qui, non sarebbe più semplice per un giovane andare a proporre i propri progetti all'estero, scrivendo direttamente in inglese?
È molto rischioso perché, per quanto tu sappia bene l'inglese, maneggi comunque una lingua non tua. Poi sicuramente arriverebbe qualcuno a controllare la lingua a puntualizzare ogni due battute: “Ah ma questo non fa ridere, questo non si capisce....”. C'è un problema legato soprattutto alla comicità, che è difficilissimo declinare in modo trasversale. Con un film di genere magari sarebbe più semplice, la comicità universale invece è difficilissima da trovare. I grandi comici, Jacques Tati, che citavamo prima. Ma anche lo stesso Woody Allen alcune volte viene penalizzato dalla traduzione.
Secondo lei qual è il rapporto tra il cinema e Milano oggi? Si può ancora girare a Milano?
Io ho girato a Milano la maggior parte dei miei film, perché ho scritto per lo più commedie metropolitane e in Italia l'unica metropoli dal respiro cosmopolita è proprio Milano, dove si trovano contraddizioni architettoniche e sociali, speculazioni, mode.
Oggi il problema è che per girare un film, data la carenza di fondi, si rincorrono le Film Commission e si cerca di adattare la storia alla location, di conseguenza. Ma una cinematografia che rincorre le Film Commission e adatta i film per ottenere finanziamenti da due-trecentomila euro non può competere con Hugo Cabret.
Voi siete giovani, avete la stragrande fortuna, come dicevano prima, di avere le tecnologie a portata di mano. Ci vogliono solo le idee. Certo, dopo cent'anni di audiovisivo è difficile trovare delle immagini forti. Ma basta partire da una piccola idea, fattibile, realizzarla e portarla in giro, ai Festival. Oggi non serve una troupe per fare un film, la tecnologia permette di farne a meno. Servono solo le idee giuste.
Intervista a cura di
Camilla Maccaferri
Andrea Chimento
Simone Soranna