Pochissimi, coraggiosi cineasti hanno tentato di racchiudere l’intera storia del cinema in un film. Ci hanno provato, nel corso degli ultimi anni, due autori che con le loro opere hanno segnato profondamente l’evoluzione stilistica del “testo” audiovisivo: Godard con le sue Histoire(s) du Cinema e Scorsese con i Viaggi nel cinema americano e italiano. Due soggettive, due sguardi che rivendicano la loro piena parzialità nello scegliere, assemblare, scomporre e ricomporre frammenti di storia del cinema secondo personalissime visioni del mezzo cinematografico. Mai nessuno aveva tentato di raccordare l’intero percorso evolutivo della settima arte dentro i confini di una narrazione documentaria che coniugasse completezza (storica, ma anche geografica), competenza e passione. Ci ha provato Mark Cousins, critico e documentarista irlandese, con la sua monumentale Story of film: an Odyssey, presentata a Toronto, Telluride e Berlino nel 2012. 15 ore di film e 7 anni di lavorazione per raccontare 120 anni di storia del cinema.
Una missione a prima vista improba, difficilissima da portare a compimento senza cadere in colpevoli manchevolezze, o magari partorendo soltanto un polveroso manuale di storia del cinema in veste di film. L’opera di Cousins, fortunatamente, non lo è. La sua attenzione non è cinefila, o nostalgica, o banalmente museificata dentro stantii parametri cronologici o tecnici. La sua è una storia del medium cinematografico, di come cioè il linguaggio cinematografico ha modificato nel corso del tempo il nocciolo stesso della sua più intima significazione. Non una storia della tecnica cinematografica quindi (non c’è menzione di film citati in ogni storia del Cinema, come ad esempio il primo film sonoro, Il cantante di Jazz), ma un racconto per intero focalizzato sulle potenzialità espressive del mezzo cinematografico, e su come i registi ne abbiamo saputo cogliere, secondo le loro diverse sensibilità e le atmosfere del loro tempo, la ricchezza e la profondità. Non è un caso quindi che il viaggio cominci con l’analisi di alcuni momenti nella storia del cinema che hanno raggiunto la massima intensità espressiva mediante un utilizzo innovativo del mezzo cinematografico: lo sbarco in Normandia in Salvate il soldato Ryan, i lampi di luce nel Film Blu di Kieslowski, l’illuminazione e il trucco della Bergman in Casablanca, un inseguimento di automobili nel Braccio violento della legge di William Friedkin.
Non è in Francia che il cinema, nel racconto di Cousins, emette i suoi primi vagiti. Prima dei fratelli Lumière e di George Melies, in America Thomas Edison mette a punto la primissima macchina per catturare la luce su un frammento di pellicola e trasformarla in immagine in movimento. E’ da qui, dalla tranquilla provincia del New Jersey, e dai leggendari luoghi parigini delle prime proiezioni dei Lumière in Boulevard de Capucines che il viaggio di Cousins comincia la sua esplorazione. Nel corso delle 15 ore di documentario Cousins riprende, oggi, con la sua macchina da presa i luoghi reali in cui “si è fatto” il cinema, da Cinecittà al villaggio bengalese in cui Ray girò Il lamento sul sentiero. La sua scelta, oltre a stabilire una immediata connessione temporale tra presente e passato, suggerisce un’altra possibile interpretazione. Collegare un film, o l’opera di un cineasta, ad un luogo fisico pone in risalto la natura strettamente culturale della settima arte. Ogni film è il prodotto di una società, di una civiltà, di un preciso patrimonio identitario. Cousins riconosce e sottolinea questo importante aspetto e con rigore quasi antropologico amplia il suo orizzonte fino ad includere cinematografie, come quella africana, raramente oggetto di analisi da parte degli studiosi.