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Creato il 10 maggio 2013 da Ifilms

up-locandina"Visibilità? Illimitata”

Ellie in Up

“Un uomo è vecchio solo quando i rimpianti, in lui, superano i sogni”

A. Einstein

 

Verrebbe da chiedersi che cosa vedono Carl ed Ellie bambini quando scrutano l’orizzonte a occhi stretti dalla finestra della loro casa-dirigibile. Prendendo proditoriamente in considerazione il punto di vista di un personaggio digitale, è lecito pensare che il suo sguardo finisca per infrangersi sulla superficie liscia e cristallina dell’immagine, senza poter superare il rettangolo in cui ogni forma cinematografica è incastonata: il campo.

 

Al contrario, alla base di ogni logica visuale del cinema “dal vero” bisogna ammettere l’esistenza di un fuoricampo che ne definisca i limiti concettuali prima ancora che spaziali. L’assenza di fuoricampo sembra essere una delle caratteristiche proprie del cinema d’animazione. Almeno fino a ora.

Up (USA, 2009) di Pete Docter è uno dei capolavori della Pixar che genera un nuovo pensiero dell’immagine digitale. Il film è capace di donare all’animazione l’incanto del fuoricampo attraverso un costante lavorio di svuotamento del campo stesso, che, con intensità crescente, si porta in alto sino alla sua metaforica cancellazione.

 

 

Ma per comprendere le cose più elevate, bisogna partire dal basso, dalla terraferma o da più giù visto che Up prende il via dall’inaspettata morte di uno dei suoi personaggi. Dopo la scomparsa dell’amata Ellie, l’immagine restituisce la dimensione dei rapporti umani che incasellano la vita del vecchio Carl: stretto tra cantieri e grattacieli, tra l’ostilità e l’indifferenza degli altri, fuorché del piccolo Russell, per il nostro quadrato protagonista l’unico movimento possibile sarà quello verso l’alto. Alla ristrettezza orizzontale dello sguardo si oppone una nuova dimensione, un residuo di visione ancora da esplorare, un luogo lassù che non ha confini.

Se Leopardi ha donato l’infinito alla poesia, la Pixar ha conquistato a un film d’animazione gli interminati spazi oltre l’orizzonte dell’inquadratura, facendo rientrare dalla finestra un fuoricampo da sempre assente.

 

È certo quindi che il movimento filmico di Up rispetta la promessa del titolo: dal momento in cui la casa prende il volo si abbandona la classica dinamica dentro/fuori cui il regista allude in tutta la prima parte dell’opera. Le prime sequenze, che raccontano come il dirigibile dell’infanzia divenga lentamente luogo degli affetti, simbolo del legame con Ellie e della loro amabile routine, preparano quelle della solitudine di Carl. A questo punto l’abitazione si trasforma in un limite invalicabile, per cui tutto ciò che è dentro si oppone a quello che sta fuori: l’interno composto e ordinato, l’esterno caotico e sporco; dentro l’Habanera, fuori il rumore e infatti, se il campanello suona, l’insofferenza e la noia si fanno palpabili, tanto che lo sbattere furioso della porta segna il ritmo di questa routine.

La casa è in un certo senso metafora del campo, lo spazio stesso dell’immagine, cui si oppone un reale incompatibile ed estraneo. Ma quando essa prende il volo, sfidando le leggi della fisica newtoniana, l’apparente dialettica della prima parte muta in nuova dinamica in cui è il quadro stesso a essere trasportato tutto intero per il mondo. E se la casa, come l’inquadratura, ha dei limiti precisi, il cielo per cui essa viaggia è invece l’illimitato della visibilità.

 

Cosa vediamo con Up per la prima volta? Vediamo che il campo galleggia, fluttua nello spazio aperto di un fuoricampo, che, sebbene inconcepibile ai margini del quadro, diviene pensabile come limite invisibile della distanza e della profondità che il nostro sguardo può raggiungere. Dal portico di casa circondato da cantieri e cumuli di macerie a un illimitato immateriale, eppure presente; esattamente come Ellie, la cui improvvisa assenza è il primo sconvolgente passaggio alla creazione di un fuori in quanto luogo di origine del senso.

L’inquadratura si rivela, al pari dei disegni nei vecchi cartoon, una traccia sulla pagina. Se dal un lato la Pixar conquista con il 3D le profondità dello spazio, dall’altro riporta l’immagine digitale alla carta, grazie a un nuovo concetto di tridimensionalità che non muove verso l’esterno ma apre un abisso nel bianco del foglio trasformandolo, come fa l’atmosfera con i raggi del sole, in una profondità azzurrina e impalpabile. Il vuoto dello spazio aperto è un miscuglio di luce e aria che l’occhio può solo attraversare; senza appigli sui quali il nostro sguardo può poggiarsi, l’unico punto di riferimento è la casa stessa che viaggia trasportata dai palloncini di elio. La singolarità di questa situazione, come è stato sottolineato dallo stesso Lasseter, ricorda i topoi di Miyazaki, ma le scene successive, in cui l’abitazione viene trascinata per una corda, mentre continua leggera a fluttuare nell’aria, ci concedono un accostamento ben più inconsueto.

 

 

Please imagine”

 

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In un’intervista per il New York Times del 1919 (3 dicembre, p. 19) Albert Einstein formulò uno dei suoi mirabolanti esempi per spiegare con immediatezza la differenza tra il suo concetto di gravità e quello di Newton; Einstein chiese al suo interlocutore di immaginare che al posto della terra ci fosse una stanza o “un’intera casa” con dentro un uomo che, in assenza di forze, fluttuava al suo interno. Se lacasa, “legata con una fune o con qualcos’altro”, fosse tirata con uno strattone da un lato, il moto al suo interno (l’uomo cade verso la parete opposta al movimento) obbedirebbe alla Legge di Newton, ma la forza reale agirebbe all’esterno secondo i principi della Teoria della Relatività Generale.

 

La corrispondenza dei dettagli nell’esempio einsteiniano rinvia a Up non solo in virtù del surrealismo geniale che caratterizza entrambe le immagini: la forza di gravità si rivela pura apparenza, così come la simbologia della dinamica interno/esterno, entrambe sono realistiche poiché agiscono in un campo estremamente limitato rispetto alla vastità dello spazio(-tempo) che circonda il nostro universo, concettuale e visivo. Infatti l’opera, più che procedere di scena in scena, sembra espandersi a ogni fotogramma.

L’allargamento dello sguardo coincide con la perdita di coordinate e raggiunge il suo apice con l’apoteosi della sequenza finale, in cui i nostri protagonisti si muovono in ogni direzione sulle scale a pioli del dirigibile Spirit of Adventure secondo una logica della “Relatività” che solo Escher era riuscito a simulare visivamente fino a ora.

L’aver abbandonato ogni formula collaudata di rappresentazione, come si fa con una zavorra, ha lasciato emergere il vero rapporto che sta alla base del film: quello tra la superficie e la profondità, la carta e l’azzurro, la porta e il passaggio, le due dimensioni e la terza. Up è un film che inizia con una coppia di protagonisti e finisce con uno trio, passando per la solitudine di un vecchio; in tutto questo tempo si rende palpabile la densità di ciò che sta in mezzo a questa geometria di rapporti, umani e non; e il campo, che viene progressivamente sgombrato per far risalire il signor Fredriksen verso l’avventura, è infine sostituito da uno spazio multiforme ed aereo, in cui può verificarsi una nuova esperienza dell’incontro.

 

Uscita dall’infanzia, l’immagine animata smette di indicarci l’ordine e il senso della visione e finalmente fa apparire un vuoto che libera i suoi personaggi da ogni impianto narrativo e concettuale precostituito. L’ampliamento dello sguardo non consiste quindi nel far cadere il quadro sullo spettatore ma nel dar vita a una distanza: quando vediamo la casa sospesa nel vuoto e ci sentiamo dentro il film, siamo in realtà il fuoricampo impossibile che permette alla Pixardi scardinare il campo per ricreare l’illimitato della visione, donando la vertigine a chi guarda e nuovi occhi amici a Carl, che perde la casa e la porta per poter aprire a un bambino che aveva suonato e al suo cane parlante.

 

 


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