L’acceso dibattito scatenato da La grande bellezza di Paolo Sorrentino è stato un segnale importante non solo per il cinema italiano, ma anche per coloro che quotidianamente ne scrivono. Nella giungla di commenti, recensioni e articoli di approfondimento, alcuni più di altri hanno saputo riassumere le sensazioni da me provate non appena le luci si sono riaccese in sala. La proiezione di una pellicola tanto attesa non poteva lasciarmi indifferente, ciò nonostante esprimere un mio giudizio netto e sintetico è apparso da subito impossibile. Stordito ed emozionato ho perciò letto compulsivamente qualsiasi parola venisse scritta su tale film, e con il passare dei giorni ho (per la prima volta) appuntato sull’agenda svariate considerazioni che ritenevo particolarmente argute. Infine, con grande stupore, rileggendole una di seguito all’altra ho inaspettatamente visualizzato ciò che io avrei voluto scrivere e che ora vi sottopongo in un’unica recensione pastiche:
«Cominciamo dal principio dopo tutto quello che si è detto e scritto su questo film. Non è soltanto per la lunghezza che l’hanno definito affresco: gli manca un intrigo vero e proprio, un’azione drammatica nel senso tradizionale della parola. Definizione per definizione, si preferisce chiamarlo un polittico, attraverso i cui comportamenti passa il personaggio principale[1].
Il film si è rivelato un grosso spettacolo dove abilità espressiva e poesia, esibizionismo e sincerità confluiscono in una sarabanda di episodi quasi tutti realizzati con mano maestra[2]. Non siamo più nel cinematografico, qui siamo nel grande affresco. Il regista non tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società[3]. Sì, si tratta proprio di un affresco cinematografico che richiama l’amoralità e la corruzione della Roma neroniana, quelle figure che vivevano su uno scenario di vita godereccia[4]. Come tutti gli autentici creatori, il regista è anche una portentosa antenna che segnala in anticipo quelli che sono i segni del tempo. E possiede anche, nella varietà delle sue narrazioni e fantasie, un filo conduttore, un’ideologia che fa da guida a tutti i suoi eroi. La sua arte si potrebbe definire fenomenologia della dissipazione e della cattiva coscienza[5]. Questo è un romanzo. È un grande romanzo, un’opera narrativa di vita contemporanea di una lucidità e di una spietatezza documentaria, e al tempo stesso di una potenza di trasposizione allusiva, piuttosto inconsuete nella nostra letteratura d’oggi. Un film che è un assoluto prodotto d’arte, non tanto perché sia fatto benissimo, o perché tutti gli interpreti lavorino benissimo, o perché la fotografia sia superba, ma perché, tirando le somme dalla massa infinita di immagini e reazioni immagazzinate nella sua fantasia, il regista le ha condensate di colpo attraverso un unico punto focale, e quindi un unico atto creativo, in un’opera cinematografica di uno stile unico, che è precisamente quello che distingue l’arte dalla non arte[6].
È abbastanza facile riconoscere dietro molti personaggi, figure della realtà; dietro molti episodi, fatti della cronaca, che polarizzarono per un giorno o un mese la curiosità dei giornali e delle riviste. Anzi tutto il film vuole essere un riflesso della realtà, uno specchio in cui, trasfigurata, si rispecchia una folla di personaggi che occupano un posto di rilievo nel nostro mondo[7]. Il protagonista non è un giudice severo che si tenga in disparte e condanni; bensì un attore-spettatore che contempla i propri errori nel momento stesso in cui li commette. Un po’ come il personaggio che parla in prima persona nel Satyricon di Petronio, documento letterario della dolce vita d’un epoca per molti versi simile alla nostra[8].
Si sbigottisce due volte di fronte alla pellicola: la prima perché non è possibile affacciarsi senza brivido su questa babilonia disperata che il regista ha dipinto senza abbandonarsi a sciocchi anatemi, senza volerle infliggere altra punizione che quella di vedersi allo specchio in tutti i più minuti particolari. La seconda perché siamo di fronte a un cinema altissimo per originalità di linguaggio, aggressività di stacchi e di cadenza, incisiva compiutezza di immagini[9]».
Dimenticavo: tutti questi brani provengono da testate uscite in edicola nel 1960 e si riferiscono a La dolce vita di Federico Fellini. Dedicato a tutti quelli che hanno equiparato l’opera di Sorrentino al capolavoro di Fellini e a chi invece, solo a pensarci, grida all’anatema. Perché anche all’epoca non tutti ne carpirono la portata epocale: «Il film è veramente diverso dagli altri, se questa era l’ambizione di Fellini, e complesso come pochi. A quale gente si riferisce? Sciagurati come questi esistono. Ci sono anche loro; anche, naturalmente; i più sani, sono esclusi dal film. Dolce vita va inteso come falsa vita[10]».
A distanza di cinquantatré anni molte cose restano immutate.
Compresa la dolce bellezza.
[1] Morando Morandini, La Notte 6/7 gennaio
[2] Corrado Terzi, L’Avanti! 6 febbraio
[3] Indro Montanelli, Corriere della Sera 20 gennaio
[4]Guido Aristarco, Cinema Nuovo gennaio/ febbraio
[5] Pietro Bianchi, Il Giorno 6 febbraio
[6] Filippo Sacchi, Epoca 21 febbraio
[7] Corrado Terzi, L’Avanti! 6 febbraio
[8] Alberto Moravia, L’Espresso 7 febbraio
[9] Guglielmo Biraghi, Il Messaggero 6 febbraio
[10] Arturo Lanocita, Corriere della Sera 6 febbraio