In occasione del ventennale della morte del regista riminese, Scola decide di raccontarne il cinema, lo spirito, gli esordi, il privato.
La sua posizione è quella di un ammiratore devoto che trasmette, con straordinaria lucidità, il privilegio di aver conosciuto (fino a diventarne grande amico) una delle figure più significative del novecento italiano.
Non è un documentario Che strano chiamarsi Federico, non segue schemi o regole programmatiche ma si affida unicamente al ricordo e alle sensazioni.
Si parte dalle frequentazioni comuni di Scola e Fellini (da il “Marc’Aurelio” a Ruggero Maccari) per passare ai loro primi incontri fino alle visite di piacere sul set dei rispettivi film.
Dal debutto come disegnatore nel 1939 fino al termine della sua vita e carriera, Fellini è rappresentato come un grande artista che, per quanto fosse vittima di un’innata creatività fanciullesca, non è mai diventato un “bambino perbene”.
Alla biografia romanzata si aggiungono inserti che Fellini avrebbe certamente amato: la figura del narratore e la fragilità del confine realtà-finzione in primis.
Se è vero che nel corso della pellicola si ride molto, con l’approssimarsi della conclusione risulta difficile trattenere le lacrime. Un “raggio di sole” illumina il definitivo carosello felliniano: Federico, come un alterego del suo alterego Guido Anselmi, sale su una giostra mentre davanti a lui sfilano sempre più rapidamente gli spezzoni di tutte le sue opere o, meglio, i personaggi (veri o fantastici, nati da bugie o da semplici schizzi) che hanno attraversato la sua (dolce?) vita.
Voto: 3/4