Il vampirismo, “piaga” letteraria del XIX e XX secolo.
Oscura e affascinante, tanto da essere sfruttata, cinematograficamente, in ogni sua forma.
Nel corso degli anni la figura del non-morto si è evoluta (involuta, direbbero molti), passando da notturne e puntute sagome ammantate ad affascinanti (anti)eroi in odore di superomismo, fino ad arrivare alle etiche, vegetariane e brillanti creature twilightiane della Meyer.
Abel Ferrara, classe 1951. Origini italiane, famiglia disastrata, un padre allibratore che lo affida al nonno a causa delle difficoltà economiche. Nasce dall’infanzia il suo interesse per un micro (o macro) cosmo variopinto, il suo sguardo a un tempo analitico e ingenuo nel tentare di capire, e fare capire, la violenza. L’ostinazione con cui ha sempre perseguito i suoi obiettivi ha contribuito a collocarlo tra sacro e profano, con ascese da capogiro e fragorose cadute, sempre sul baratro del ridicolo, sempre ad un passo dal genio (basti pensare allo straordinario e misconosciuto L’angelo della vendetta).
Tema apparentemente spurio nella filmografia di Ferrara, il vampirismo diventa inaspettatamente veicolo di una poetica registica coerente e cristallina e
The Addiction. Letteralmente, la dipendenza.
Dipendenza dal sangue umano, di cui inizia a soffrire la studentessa di filosofia Kathleen Conklin (un’intensa Lili Taylor) dopo essere stata infettata.
Dipendenza dalla droga che negli anni ’90 infestava le strade d’America, a cui Ferrara è tutt’altro che estraneo.
Dipendenza dal Male, centro dell’opera, nodo fondamentale che racchiude i feticci di un autore contraddittorio, spietato e indulgente, distaccato e disperato.
Kathleen Conklin è il simbolo di un’umanità indifferente, corrotta e malvagia (“Non siamo peccatori perché pecchiamo. Pecchiamo perché siamo peccatori”, afferma Casanova, iniziatrice dell’agonia della ragazza), che nulla può salvare dalla “folle propensione a propagare il Male in cerchi sempre più ampi”.
Il contagio diventa universale, mostruoso, inarrestabile. Il declino fisico e spirituale della protagonista (“Sto marcendo dentro”) è quello di una società che, tra bramosia di sangue e squarci di orrore reale, si mostra in tutta la sua degradazione.
Un viaggio all’Inferno in cui la distinzione tra reale e soprannaturale non esiste più. Il vampiro, come l’uomo, è solo e inerme e con l’uomo condivide quella colpa e quel peccato che per Ferrara sono le basi prime e ultime della miseria umana. L’orrore che deve fronteggiare la Conklin è la dipendenza dal Male, ineluttabile, insopprimibile, talmente potente da scorrere strisciante nelle vene per poi deflagrare con violenza belluina nella sconvolgente orgia pre-finale, in cui un sangue nero e malato diventa rappresentazione estrema della “violenza della volontà”.
Tra teologia e filosofia (Heidegger Kierkegaard, Sartre, Nietzsche), la cultura risulta ormai inutile, la teoria è annientata, i libri sono dichiaratamente associati a pietre tombali: “la dipendenza è una cosa meravigliosa. Per l’anima è meglio di qualunque speculazione intellettuale”.
L’iter di (de)formazione della Coklin non può che passare attraverso la distruzione, altrui e di se stessa, per arrivare, in uno dei finali più memorabili che il cinema ricordi, alla consapevolezza, alla redenzione, alla catarsi.
Io sono la resurrezione. (Giovanni, XI, 25)
Amen.