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Creato il 30 ottobre 2013 da Ifilms
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“La dipendenza ha una duplice natura: da un lato soddisfa lo stimolo che scaturisce dal male ma, dall’altro, ottunde la percezione. L’esistenza diventa ricerca di sollievo dal vizio e il vizio è l’unico sollievo che possiamo trovare.”

Il vampirismo, “piaga” letteraria del XIX e XX secolo.

Oscura e affascinante, tanto da essere sfruttata, cinematograficamente, in ogni sua forma.

Nel corso degli anni la figura del non-morto si è evoluta (involuta, direbbero molti), passando da notturne e puntute sagome ammantate ad affascinanti (anti)eroi in odore di superomismo, fino ad arrivare alle etiche, vegetariane e brillanti creature twilightiane della Meyer.

Abel Ferrara, classe 1951. Origini italiane, famiglia disastrata, un padre allibratore che lo affida al nonno a causa delle difficoltà economiche. Nasce dall’infanzia il suo interesse per un micro (o macro) cosmo variopinto, il suo sguardo a un tempo analitico e ingenuo nel tentare di capire, e fare capire, la violenza. L’ostinazione con cui ha sempre perseguito i suoi obiettivi ha contribuito a collocarlo tra sacro e profano, con ascese da capogiro e fragorose cadute, sempre sul baratro del ridicolo, sempre ad un passo dal genio (basti pensare allo straordinario e misconosciuto L’angelo della vendetta).

Tema apparentemente spurio nella filmografia di Ferrara, il vampirismo diventa inaspettatamente veicolo di una poetica registica coerente e cristallina e trasforma un horror metropolitano in capolavoro.

The Addiction. Letteralmente, la dipendenza.

Dipendenza dal sangue umano, di cui inizia a soffrire la studentessa di filosofia Kathleen Conklin (un’intensa Lili Taylor) dopo essere stata infettata.

Dipendenza dalla droga che negli anni ’90 infestava le strade d’America, a cui Ferrara è tutt’altro che estraneo.

Dipendenza dal Male, centro dell’opera, nodo fondamentale che racchiude i feticci di un autore contraddittorio, spietato e indulgente, distaccato e disperato.

Kathleen Conklin è il simbolo di un’umanità indifferente, corrotta e malvagia (“Non siamo peccatori perché pecchiamo. Pecchiamo perché siamo peccatori”, afferma Casanova, iniziatrice dell’agonia della ragazza), che nulla può salvare dalla “folle propensione a propagare il Male in cerchi sempre più ampi”.

Il contagio diventa universale, mostruoso, inarrestabile. Il declino fisico e spirituale della protagonista (“Sto marcendo dentro”) è quello di una società che, tra bramosia di sangue e squarci di orrore reale, si mostra in tutta la sua degradazione.

Un viaggio all’Inferno in cui la distinzione tra reale e soprannaturale non esiste più. Il vampiro, come l’uomo, è solo e inerme e con l’uomo condivide quella colpa e quel peccato che per Ferrara sono le basi prime e ultime della miseria umana. L’orrore che deve fronteggiare la Conklin è la dipendenza dal Male, ineluttabile, insopprimibile, talmente potente da scorrere strisciante nelle vene per poi deflagrare con violenza belluina nella sconvolgente orgia pre-finale, in cui un sangue nero e malato diventa rappresentazione estrema della “violenza della volontà”.

 

“Chiedimi di andarmene, e fallo con convinzione”: la domanda posta dagli untori alle loro vittime è il fondamento della poetica ferrariana e l’accondiscendenza con cui esse accettano il proprio destino è troppo sospetta per essere interpretata come terrore o rassegnazione. È complicità. È collaborazionismo. Da ciò, e su ciò, l’intera metafora del film, spietato apologo di un regista che si ama o si odia ma che di certo non lascia indifferenti, talmente assoluto nella sua semplicità da sfiorare il didascalismo, superarlo in corsa e toccare vertici da brivido.

Tra teologia e filosofia (Heidegger Kierkegaard, Sartre, Nietzsche), la cultura risulta ormai inutile, la teoria è annientata, i libri sono dichiaratamente associati a pietre tombali: “la dipendenza è una cosa meravigliosa. Per l’anima è meglio di qualunque speculazione intellettuale”.

L’iter di (de)formazione della Coklin non può che passare attraverso la distruzione, altrui e di se stessa, per arrivare, in uno dei finali più memorabili che il cinema ricordi, alla consapevolezza, alla redenzione, alla catarsi.

Io sono la resurrezione. (Giovanni, XI, 25)

Amen.


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