Antonio arriva a Milano dall’Umbria, spinto dalla speranza di curare il figlioletto Pietro, affetto da un tumore al cervello. L’adolescente Jaber nel capoluogo milanese invece ci vive, in fuga da un’Africa invischiata in delle rivolte che non lasciano sicurezza, che brulicano di una libertà sognata ma allo stesso tempo spalancano miriadi di dubbi su ciò che ne sarà di un intero continente e fetta di mondo. Anche lui bazzica nello stesso ospedale in cui si trova Antonio, per stare accanto a un amico malato. Una vicinanza simile alla spartizione del territorio tra due animali, la loro, tra diffidenza e sospetti, tra la tensione verso l’utopia di un futuro migliore e la cruda realtà sociale di un’intolleranza che continua a invadere ogni angolo, ogni centimetro di spazio condiviso.
Quello di Mirko Locatelli è un cinema che muove dall’assenza di una prospettiva solare, dalla menomazione come handicap profondo, da uno sguardo estraneo all’ottimismo a buon mercato. Inevitabilmente disabile, incapace di non farsi pervadere dalla foschia color nero pece che s’insinua nel vissuto quotidiano e lo contamina subdolamente. Eppure, non c’è compiacimento, non c’è piagnisteo gratuito, non c’è un gioco di ombre consapevole sugli affanni del contemporaneo, teso a generalizzare il particolare per cavarne appiccicaticce riflessioni sull’universale. L’obiettivo nitido cui il film guarda e che riesce anche a portare a casa con discreta solidità è un dramma sincero e non manipolatorio nonostante le vette di cupezza, che sa procedere con la discrezione pudica e sfumata di un’affezione partecipe, pronta a deporre il bisturi dello spaccato disperante e disperato di cui nessuno sembra sentire (più) alcun bisogno.
Il racconto di due “estraneità”, alle prese con un dolore affettivo lancinante, coincide con l’atto d’amore defilato e umilmente prostrato del regista per la portata devastante della solitudine del suo protagonista. Un malessere che è tanto più totale quanto più si articola e si ramifica in tanti piccoli gesti quotidiani: Antonio sbuffa, sbotta, cerca un lavoro che sia uno, solleva pesi come l’ultimo dei facchini, girovaga di notte, fuma senza soluzione di continuità, prova a rubare brandelli di luce a un avvenire che ha l’odore acre del buco nero a strapiombo, del tunnel senza via d’uscita, del vicolo cieco che preclude perfino la possibilità di essere imboccato. Filippo Timi, ben oltre i suoi omologati standard recitativi, gli dona fisicità e credibilità in un’interpretazione fisica e ansante, ammaccata e sentita, non retribuita e - non è difficile immaginare – davvero tanto voluta e cercata. Una prova docile nonostante l’aggressività implosa del suo personaggio, ben supportata da una visione registica oculata e accorta che sa sfumare quando necessario, nobilitare i dettagli, elevare anche gli intermezzi e le sequenze di raccordo a micro-narrazioni cariche di valore e di significato interno.
Con una grazia e un calore umano tali che anche delle scene che altrove sarebbero sembrate furbescamente ruffiane (vedi il biscotto che il figlio dà da mangiare al padre nell’inquadrettamento di un tramonto virato al nero) appaiono naturali, legittimate, perfino necessarie.
Voto: 3/4