“Quello che restava del cane che era stato prima che il pipistrello gli mordesse il naso si girò e quell’altro cane, quello malato e pericoloso, ubbidiente per quell’ultima volta, fu costretto a girarsi a sua volta. Cujo se ne andò via ciondolando, ingoiato dalla nebbia. La schiuma colava dal muso giù sulla polvere dell’aia. Si mise a trottare, sperando di lasciarsi indietro la malattia, ma il male correva con lui, ronzando e cicalando, angosciandolo con dolorosi pensieri di odio e assassinio. Si mise a rotolare nell’erba alta, mordendola, roteando gli occhi. E il mondo era un mare impazzito di odori. Li avrebbe seguiti, ne avrebbe ritrovate le fonti e le avrebbe sbranate tutte. Si mise a ringhiare di nuovo. Si imbucò nella nebbia che cominciava a diradarsi, un cagnone che pesava poco meno di cento chili.” (Stephen King, Cujo)
Stephen King è da sempre fonte di ispirazione per innumerevoli registi, oltre che oggetto di culto tra schiere di fedeli seguaci. Nel corso degli anni le sue opere sono divenute immagini sul grande schermo per la gioia di fanatici ammiratori e di cultori cinefili. Kubrick, De Palma, Cronenberg, Reiner: nomi altisonanti, adattamenti trasformati in capolavori (basti pensare a Shining, con buona pace dello scrittore del Maine che non si risparmiò certo in critiche, denunciando lo stravolgimento del romanzo e il tradimento di presunti intenti strutturali e narrativi).
Viene da pensare che forse King, maestro nel condurre il lettore attraverso incubi e deliri, non sia un buon critico cinematografico: non si spiega, altrimenti, il suo disappunto nei confronti di Kubrick e la sua magnanimità verso tale Lewis Teague, autore della trasposizione di Cujo (1981), crudele fiaba orrorifica incentrata su un San Bernardo che, diventato idrofobo in seguito al morso di un pipistrello, inizia a mietere vittime nella sonnolenta Castle Rock.
Le pagine ci introducono nella quotidianità dei Trenton: coniugi in crisi, moglie adultera e pentita, figlioletto in preda al disagio per una situazione familiare tutt’altro che serena. Nemesi di questo contraddittorio nucleo piccolo borghese sono i Camber, padroni di Cujo e veicolo di dinamiche opposte (marito violento, figura femminile succube ma sull’orlo della ribellione, adolescente combattuto tra l’amore per il padre e il desiderio di una vita migliore).
La tragedia esplode in una piccola realtà di provincia per farsi metafora del Male: il sottile confine tra ciò che è terreno (e cosa è più concreto di un cane affetto da rabbia?) e ciò che appartiene alla sfera del fantastico (nell’immaginario infantile, una creatura che vive nell’armadio) si sfalda per dare vita ad una sorta di collasso temporale in cui i mostri sono destinati a tornare, in un eterno riciclo storico:
“Solo che il mostro non muore mai. Lupo mannaro, vampiro, mangiacadaveri, innominabile creatura di boschi o ghiacciai, il mostro non muore mai.”
L’incipit favolistico (“C'era una volta, ma non molto tempo fa, un mostro che arrivò a Castle Rock, nel Maine”) ben si adatta all’inserto soprannaturale (la preveggenza di Tad Tranton che intravede negli occhi rossi e infuocati della “cosa” che vive nel suo armadio, sorta di porta che si spalanca verso l’ignoto del Nulla o della vita adulta, i segni di una sventura imminente), gli elementi si fondono e rendono Cujo il simbolo di un’entità maligna che presiede al destino dell’uomo inerme. L’assedio si fa ancestrale e universale: Cujo è il mostro inconsapevole, il punitore, il Fato che inevitabile si abbatte sulle altrui esistenze. E l’inevitabile coincide con la morte, ancor più terribile perché a soccombere è un bambino:
“La faccia del bambino era pallidissima. I suoi capelli parevano stoppia attorno al fragile cranio. Le sue mani giacevano sull'erba come se non avessero nemmeno peso abbastanza da schiacciare gli steli con il dorso. […] Possibile che la vita di Tad fosse scivolata via nello stesso momento in cui se ne andava la vita del cane? Non era possibile. Nessun Dio, nessun Fato poteva essere così mostruosamente crudele.”
Cosa rimane nel film di Teague? Nulla. Assolutamente nulla.
Nessun senso di ineluttabilità, nessuna archetipica angoscia. Solo un imbarazzante pseudo-thriller da guardare durante un uggioso sabato pomeriggio, magari mentre si sbrigano le faccende domestiche.
Scompare l’inquietante connessione tra realtà e fantasia. Svaniscono gli approfondimenti psicologici (le motivazioni del tradimento di Donna Trenton, le sue paure, le sue speranze, la sua disperazione; il complesso nodo di sentimenti di Brett Chamber nei confronti del padre; il latente egoismo di Charity Chambers, vero motore della tragedia; e si potrebbe continuare a lungo). La simbologia di cui Cujo è ammantato si volatilizza in favore della desolante rappresentazione di una canina macchina tritacarne, lorda e sanguinolenta. Soprattutto, cambia il finale: la morte di Tad è eliminata dallo script, il bambino sopravvive e tutti vissero felici e contenti, in un irritante happy ending tipicamente americaneggiante che annulla totalmente e scandalosamente gli intenti del romanzo e svilisce il senso stesso dell’opera.
Troppa carne al fuoco, potrebbe pensare qualcuno: vero, ma sarebbe allora vivamente consigliabile scegliere una linea narrativa coerente, oppure evitare di girare un film. In questo caso, vale la seconda opzione.