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Creato il 25 novembre 2013 da Ifilms

locandina-la-mafia-uccide-solo-destate“Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.”

Paolo Borsellino

-   Papà, ma la mafia è pericolosa?

-   No, figliolo, la mafia è come un cane. Se lo lasci stare, non ti morde.

La nascita di Arturo (Pif) coincide con l’elezione di Vito Ciancimino a sindaco di Palermo: da quel momento la sua vita è legata a doppio filo agli avvenimenti che vedono il dilagare della mafia in Sicilia. Tra l’amore per l’irraggiungibile Flora (Cristiana Capotondi) e l’ossessione per Giulio Andreotti, unico apparente baluardo di stabilità in un contesto dominato dal caos, la consapevolezza di Arturo crescerà giorno dopo giorno fino agli attentati ai danni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

“Un giorno mi sono fermato e mi sono guardato indietro. E lì è nata la domanda: ma come è possibile che a Palermo la mafia entrasse così prepotentemente nella vita delle persone e che in pochi dicessero qualcosa?” Interessante esordio cinematografico di Pierfrancesco Diliberto in arte Pif, presentato in concorso al 31 Torino Film Festival, La mafia uccide solo d’estate ricalca lo stile “a inchiesta” de Il testimone, programma televisivo di MTV che ha spopolato tra i giovani. Ex aiuto regista di Franco Zeffirelli (Un tè nel deserto) e Marco Tullio Giordana (I cento passi), Pif ha assimilato bene la lezione e riesce a destreggiarsi con naturalezza sorprendente nel tratteggiare l’intreccio tra privato e pubblico, tra punto di vista personale e impegno civile.

 

Frizzante e godibile, in buon equilibrio tra commedia e tragedia, il film riesce a trovare un modo originale e onesto per raccontare il dramma della mafia in una terra violentata da sanguinose stragi e martoriata dalla piaga dell’omertà (“il pregio principale di un ragazzo è la capacità di stare in silenzio”, afferma il prete del paese). L’educazione del giovane protagonista, spettatore dagli occhi perennemente spalancati, passa attraverso gli omicidi di Pio La Torre, Boris Giuliano, Carlo Alberto Dalla Chiesa, e il suo sguardo attonito è il mezzo perfetto per denunciare un Paese che non vuole vedere, che dimentica troppo in fretta, che esplode quando ormai è troppo tardi.

 

La seconda parte risulta meno efficace, perdendosi nella storia d’amore tra Arturo e Flora (caricata di simbolismi forzati) e in un finale in odore di retorica e moralismo. Ma gli intenti più che onesti giustificano una ridondanza eccessiva che nulla toglie in dignità, dote ormai rara nel cinema contemporaneo.

Voto: 2,5/4


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