Pawel Pawlikowski torna a casa. Dopo le produzioni internazionali con grandi cast, come il celebre My summer of love con Emily Blunt e La femme du Vème con Ethan Hawke e Crhistin Scott-Thomas, il regista polacco guarda al grande cinema dell’Est europa per raccontarci la storia di Ida, ambientata nella Polonia degli anni Sessanta.
La splendida fotografia in bianco e nero di Lukasz Zal ci introduce delicatamente tra le mura di un convento dove la giovanissima Anna, orfana cresciuta tra le suore, sta per prendere i voti. Improvvisamente emerge dal suo passato l’unica parente rimasta in vita, la sorella di sua madre. Riluttante, la ragazza va a trovarla, per scoprire cosa ne è stato dei suoi genitori, e soprattutto per conoscere la propria identità. Le sorprese che le riserva la zia, l’intensa e disperata Wanda (interpretata benissimo da Agata Kulesza) sono più grosse di quanto Anna, o meglio Ida, potesse immaginare.
Tra viaggi di formazione alla scoperta del sé e dell’altro, dubbi e ferite mai sanate si salda, debolmente ma autenticamente, un embrione di legame tra due donne, lontanissime eppure vicine. L’insegnamento più importante che la dissoluta Wanda, donna del regime, bevitrice, fumatrice accanita e dalla vita sessuale sregolata, regala alla fragile e sensibile Ida, per la prima volta lontana dalle mura rassicuranti del convento, è che la castità, se prima non si conosce il gusto del peccato, non è affatto un sacrificio, ma semmai una scelta codarda, il rifiuto della pulsione vitale.
Echi di Sokurov nella fotografia, nel formato “televisivo” e nella durata breve ma intensa, con il costruirsi di una rete affettiva fatta solo di sguardi e micro gesti, per un film levigato come la carnagione della protagonista, trasparente come la brina polacca d’inverno, delicato come il rapporto tra zia e nipote.
Voto: 3/4