Proiettato allo scorso Festival di Venezia in occasione del Leone d’Oro alla carriera conferito a William Friedkin, Il salario della paura rappresentò un passo falso nella carriera del regista americano, reduce dai successi di Il braccio violento della legge e L’esorcista: costato 22 milioni di dollari, ne incassò poco più di 6.
Un flop unanime, spietato e assolutamente immeritato che nulla toglie al valore di un’opera modernissima nella tecnica e nella struttura. Quattro sbandati (un killer professionista, un terrorista palestinese, un affarista parigino coinvolto in una truffa, un rapinatore in fuga dopo un colpo andato male) si rifugiano in un paese dell’America Latina e conducono una vita miserabile: unica speranza di salvezza, guidare due camion carichi di esplosivo per poter ricevere denaro e passaporto. Finirà male. Friedkin omaggia Vite vendute di Henri-Georges Clouzot, a sua volta tratto dal romanzo di Georges Arnaud, e costruisce un climax tensivo che non concede tregua allo spettatore: i disperati protagonisti, sempre sul punto di esplodere come la nitroglicerina che trasportano, vengono calati in un inferno verde che fa presagire la tragedia incombente. Attori perfetti (nonostante Roy Scheider fosse un ripiego: la parte del rapinatore Scanlon era stata rifiutata da Steve McQueen, Clint Eastwood e Jack Nicholson), strepitosa colonna sonora dei Tangerine Dream. Memorabile la sequenza dei camion bloccati su un ponte pericolante sotto il diluvio.
Imperdibile.