Sara si tolse le lenti e strofinò gli occhi affaticati dalla luce dei faretti alogeni. Nel suo mondo di miope, la macelleria dirimpetto si fuse in una liquida ombra con la farmacia accanto. Rimise gli occhiali in tempo per vedere la polvere entrare dalla porta, al passaggio di un camion strangolato nella via stretta e buia. Insieme, un intenso odore di fulminanti irritò le sue narici.
Una cliente ritardataria fece capolino. Due occhi si appuntarono agri sui suoi capelli lisci e sulla sua faccia depressa: “Chiudi, nini?”
“No, non ancora, si accomodi, signora.”
“Senti, nini, per stasera, avrei pensato di cambiare colore ai capelli. Mi piacerebbe un bel tono di mogano.”
Sara mise a fuoco la donna. Caschetto stopposo, basco sulle ventitré, seno appassito, strizzato nella maglietta di lamé. “Il rosso le donerebbe”, disse, pensando che quelle come lei le avvizzivano l’anima. “Dove va di bello, stasera?”
“Faccio quattro salti al circolino, e tu?” La donna glielo stava chiedendo, ma si vedeva che non le interessava conoscere la risposta. Le sue pupille saettavano fra la merce esposta.
“Io? Niente di speciale.”
Mostrò alla cliente la tabella dei colori, e si accorse che le proprie mani tremavano. Le accadeva spesso mentre lavorava, ma mai quando stringeva il pennello. Sara sapeva dipingere ogni sorta di fiori, dai gialli girasoli di Van Gogh, ai petali scarlatti di Gaugin.
Era stato proprio a causa di Les seins aux fleurs rouges di Gaugin che aveva ricevuto la prima email da F. Si erano incontrati per caso, in una chat line per appassionati di pittura impressionista.
“Il colore esprime più un’emozione che la realtà”, aveva scritto lei, civettuola, firmandosi TAHITI, come l’isola amata da Gaugin. “Questa è arte rivoluzionaria, è la strada che porta a Picasso”, aveva tuonato lui, virile. Chiudeva sempre le sue lettere con quell’unica, inquietante, iniziale: F.
Era cominciato così un lungo scambio di messaggi. Parlavano di molti argomenti, ma soprattutto di pittura. Lei aveva imparato a riconoscere l’umore di F. dalla punteggiatura, dalle parole che sceglieva, dai suoi silenzi. E, sebbene non si fossero mai incontrati di persona, si era innamorata, proprio come Meg Ryan in C’è posta@ per te.
“Mi dici quanto costano questi rossetti?” La cliente la stava fissando indispettita.
“9,99, signora.”
Incartò il rossetto insieme alla tintura per capelli. Batté il relativo importo sul registratore di cassa. Sentiva le dita formicolanti ed estranee. Si ritrovò ad osservare la propria mano come qualcosa di distaccato dal suo corpo. Era minuta, con peluzzi rosa e unghie corte. La mano di una bambina invecchiata.
“Guarda che ti ho dato un pezzo da cinquanta.”
“Mi scusi.”
La cliente uscì, augurandole uno svogliato buon anno. La strada si andava disanimando. Un gruppo di bambini accendeva un petardo dopo l’altro sul marciapiede davanti alla vetrina. Lei se li sentiva scoppiare tutti dentro.
Chissà come avrebbe trascorso quella notte di festa F.?
Sapeva solo che lui viveva a Roma, che non era più un ragazzo, che aveva una famiglia sua. Tutto il resto lo aveva messo lei. Giorno dopo giorno, con la forza della sua fantasia, si era inventata un amore. Col pennello potente del suo cuore, aveva dipinto un volto, creandolo più vero del vero, come quelle orchidee che colorava alla maniera di Gaugin. E adesso quel volto le mancava, le mancavano quegli occhi immaginati, quei capelli che aveva inventato lei, quella risata solo intuita. Le mancava quel niente lievissimo che aveva di lui e che per lei era tutto.
Gli ultimi passanti rincasavano scambiandosi auguri infreddoliti. Una coppia entrò litigando in un’auto. Sara intravide un luccichio di paillettes ed il collo di una bottiglia di spumante.
Era ora di chiudere anche per lei. Suo padre l’attendeva a casa per brindare insieme al nuovo anno. Vedovo ed ischemico, non se la sentiva di lasciarlo solo e poi nessuno la invitava più, ormai.
Tolse poche banconote dalla cassa, quindi segnò sul registro l’esangue incasso, accanto alla data: 31 dicembre, martedì.
“E anche per quest’anno…”
Indossò il cappotto e lo abbottonò per bene, perché fuori il vento era umido e cattivo. Pensò a F., alla sua vita che lei non conosceva, alla foga con cui descriveva le ballerine di Degas, alle sue frasi caustiche, brillanti. “I sogni appartengono solo a chi li sogna”, diceva.
F., che non le scriveva più da mesi.
“Il gioco è bello se dura poco”, aveva affermato nella sua ultima lettera.
Sara cercò l’ombrello. Si sentiva pesante, fredda. “Forse ho un po’ di febbre”, mormorò, tastandosi la fronte, poi spense la luce. Dal buio prese forma l’odore dei profumi, pungente, malsano, come di fiori putrefatti.
Poi, d’un tratto, nell’oscurità vide comparire una montagna blu, un mare denso, azzurro cobalto, e carnosi fiori scarlatti, dipinti a forti pennellate di luce e di buio.
Allora sorrise. Con un colpo deciso, tirò giù la saracinesca.
“Questa sera”, si disse, “quando tutti gli altri danzeranno, io dipingerò.”
Patrizia Poli